Non ci si stancherà mai, di vedere i film di Takashi Miike: e, considerata la sua già sterminata filmografia, e il ritmo con cui il regista giapponese continua a proporre il suo cinema, il rischio di restare a bocca asciutta tende praticamente allo zero, ancora per moltissimo tempo a venire. E non ci si stancherà mai, invero, neanche di ascoltarlo parlare del suo lavoro, di rilevarne la simpatia e la disponibilità, mista a quella sottile, costante ironia che cela una mente vulcanica e sempre al lavoro. È da tre anni una sorta di habitué, Miike, nel contesto del Festival del Film di Roma. Una tradizione che ci auguriamo vivamente possa continuare, malgrado i forti dubbi legati alla conferma di Marco Müller (suo principale sponsor) alla direzione artistica della manifestazione capitolina.
Quest'anno, il geniale cineasta nipponico ha portato a Roma, in prima mondiale, il deragliante As the Gods Will: riflessione metafisica e intrattenimento in salsa pop, tratto da un manga molto popolare in Giappone. Contestualmente, la manifestazione romana ha insignito Miike del Maverick Director Award, premio pensato proprio per i cineasti che si caratterizzano per il loro essere "fuori dagli schemi". Nel presentare il film, il regista ha incontrato prima la stampa presente al Festival, e successivamente il pubblico, in una masterclass ricca di spunti e suggestioni. Dei due incontri, raccontiamo qui i momenti più significativi.
Suggestioni vecchie e nuove
As The Gods Will, come molti dei suoi precedenti lavori, è tratto da un manga. Come mai fa spesso questa scelta?
Takashi Miike: In passato molti cineasti hanno già ricevuto stimoli ed ispirazione dai manga; in precedenza, invece, era successo il contrario. In questo caso, si tratta di un manga di grande successo in Giappone, soprattutto tra gli studenti. Da noi, questa forma di espressione è molto diversa rispetto alla tv e al cinema, e consente una notevole libertà: questo tipo di impeto, trasportato al cinema, può essere fruito da più persone.
Si tratta di un film che ha molti rimandi alle tradizioni giapponesi, vi si trovano icone come il Daruma e il Maneki neko. Che reazione si aspetta dal pubblico locale?
Il film è stato completato pochissimo tempo fa, e viene presentato per la prima volta qui a Roma: non so quale sarà la reazione del pubblico giapponese, sono un po' in apprensione per questo. Non riesco a fare un paragone tra le due culture, sono molto diverse, ed è diverso l'ambiente. È un film che comunque, più che trasmettere un messaggio, vuole lasciare che il pubblico percepisca qualcosa di diverso.
Nel film è presente una particolare visione sul destino, il libero arbitrio e la fortuna, forse governati da una divinità. E' un tema che era già presente nel manga?
Sì, questi elementi erano già presenti nel manga, anche se forse non con la stessa chiarezza. Nel film ho voluto evidenziare tre elementi: la forza, l'intelligenza e la creatività, gestiti infine da una quarta componente, che è la fortuna, il caso.
Apparentemente, lei sembra un regista in rottura col cinema giapponese, ma in realtà molti suoi film sono legati alla classicità. Qual è il suo rapporto con la tradizione?
La tradizione, nel cinema giapponese, è sempre legata a uno specifico momento, o a certi elementi, come i samurai e l'harakiri. Si tratta di film che mi hanno entusiasmato quand'ero giovane, e che portano con sé ricordi di estremamente gradevoli. Ora che ho l'occasione di girarli, mi chiedo come possano essere visti dal pubblico di oggi, come gli spettatori percepiscano la bellezza del passato. Riprendere i temi del passato, comunque, è un'impresa tutt'altro che facile: è complicato ricrearli anche a livello scenografico, e ci sono elementi economici che vanno ugualmente tenuti in considerazione.
I generi e la libertà
Lei, nella sua carriera, ha toccato tanti generi. Ha mai pensato di fare un film a Hollywood, con un grosso budget?
Sì. Proprio quest'anno, in effetti, avevamo messo in piedi un progetto con Tom Hardy. Si parlava di un film in cui avrei avuto un grado di libertà elevato, con uno staff giapponese ma prodotto da Hollywood: purtroppo, però, un mese prima di iniziare le riprese tutto si è bloccato. Al di là della nazionalità, comunque, ci sono punti che voglio continuare a sviluppare nel mio cinema: se dovessi andare a Hollywood, vorrei continuare a fare quello che interessa a me.
Il suo nome, in effetti, è da sempre sinonimo di libertà e inventiva. Ma stupisce anche la disciplina che c'è in ogni suo lavoro, il grande rispetto che traspare per la materia trattata. Quale delle due componenti è la più importante?
Quando ricevo una proposta da un produttore che mi dice che ha un budget limitato, e mi chiede di dargli una mano, per prima cosa guardo i suoi occhi: se sono attenti, sinceri, allora immediatamente sviluppo voglia e interesse per il progetto. Inoltre, mi rendo conto che quando il budget è limitato si riesce ad essere molto più liberi. Con grossi budget c'è la necessità di fare un grosso hit, ma si resta legati a un tipo di intrattenimento "medio": questo, spesso, impedisce di divertirsi quando si gira. Ma resta il fatto che i film sono film, non misuro il loro valore rispetto al budget.
Partendo dai film direct-to-video, fino ai suoi ultimi lavori, la sua carriera ha toccato varie fasce di budget. Quando è successo che gli studio hanno cominciato ad accorgersi di lei?
Secondo me non se ne sono ancora accorti! Per molto tempo sono stato totalmente libero, senza "appartenere" a nessuno studio: ora invece ho enti aziendali, produzioni, televisioni, che hanno bisogno di quella che si chiama "compliance" nella società. C'è quindi moltissimo lavoro, e questa è una cosa che mi rende felice, ma anche più regole a cui sottostare. Comunque, una certa libertà riesco sempre ad ottenerla, e in quella c'è un grande valore.
Quest'anno sembra essere tornato a trattare il genere horror: questo, in un certo senso, è un horror "giocoso", mentre il contemporaneo Over Your Dead Body è più vicino alle atmosfere di Audition. Come mai è tornato a queste atmosfere?
Over Your Dead Body, in giapponese Kuime, in realtà è una storia antica, che è stata riproposta più e più volte al cinema, ed è frutto di archetipi. È un film rivolto soprattutto a una generazione precedente, mentre con As The Gods Will mi collego alla generazione futura. Sono due tipologie di film diverse: non so se sono film horror. Io mi limito a farli, i film, la categorizzazione viene semmai dopo. Io, come cineasta, cerco di dare il massimo in termini di messa in scena, a prescindere dal genere: certo, guardando il mio lavoro, fare film dai toni cupi sembra un po' il mio destino.
Le limitazioni, in Giappone e fuori
Lei ha fan importanti a Hollywood, come Quentin Tarantino, Guillermo del Toro, Eli Roth. Eppure, il suo primo contatto con l'industria americana, nella serie Masters of Horror, è stato travagliato...
L'America viene spesso descritta come la terra delle libertà. Beh, quando mi arrivò la richiesta per questo lavoro, dalla tv a pagamento americana, mi dissero "può esprimere tutto quello che vuole, l'unica limitazione è che non venga mostrata una penetrazione". Allora io ho detto che andava bene, e ho girato Sulle tracce del terrore. Visto il film, mi hanno detto "ma come può pensare che potremmo mandare in onda una cosa del genere"? Il mio sarebbe stato il tredicesimo film della serie, ma alla fine ne sono rimasti dodici. Pubblicarono pure una lettera di scuse sul New York Times. Ecco, per me l'America reale è questa: o almeno, questa è l'immagine che ne ho io.
E in Giappone, qual è il suo rapporto con la censura? Ha avuto problemi coi suoi film più recenti?
In Giappone c'è una commissione per l'etica nel cinema, un ente apposito. Si tratta di un ente privato: ne fanno parte un sacco di persone a cui non è andata bene la carriera cinematografica, che magari sono stati in passato vittime della censura, e ora si sfogano dopo essere passati dall'altra parte. Queste regolamentazioni, in gran parte, sono state prese a prestito dall'America, dopo la sconfitta nella guerra. Ci sono standard diversi per la pornografia e la violenza, ma è da dire che gli obiettivi di questo ente sono cambiati nel corso degli anni. C'è un metro diverso per ogni fascia di età, ma spesso sono le opere stesse a ridefinire questo metro. A volte capita anche che alcune opere non vengano presentate. Non percepisco questi vincoli come molto forti, comunque: tutto sta a capire il metro di giudizio. Per esempio, mi rendo conto che quest'ultimo film può essere visto da spettatori dai 15 anni in su; d'altronde, è anche giusto che ci siano delle regole, e che si cerchi di tutelare gli spettatori più giovani.
Ad ogni film, si crea l'attesa di un Miike sempre più visionario, per sangue ed eccessi. Questo la diverte, o la sente come una limitazione?
Che ci sia gente che guarda e conosce le mie opere, non può che farmi piacere. Ciò mi dà anche l'occasione di partecipare a grandi festival internazionali: oggi, sono qui con voi proprio grazie a questo. Sono i film stessi a crearmi un cammino. Essere un cineasta, comunque, è innanzitutto un grande divertimento.
Who is Takashi Miike?
Quali sono le sue influenze, culturali e cinematografiche?
La cultura dei manga, innanzitutto, che mi ha nutrito fin da bambino: era una produzione rivolta soprattutto ai più giovani, e si affiancava a storie televisive che mostravano eroi, nei telefilm e nell'animazione. Era una specie di doccia continua, che ricevevamo giorno dopo giorno. Poi, a 13-14 anni, ho conosciuto i film di Bruce Lee: questi mi hanno fatto percepire l'intrattenimento vero e proprio. In Giappone, lui fu subito considerato un eroe straordinario. Con i suoi film, e con la loro perdurante popolarità, ho capito davvero l'importanza del cinema: ho capito che una persona, anche dopo la sua dipartita, poteva continuare a vivere. Poi, ovviamente, c'è la cultura giapponese classica, che fa ugualmente parte della mia formazione.
In Sukiyaki Western Django c'era l'omaggio a Sergio Corbucci, in Visitor Q molti critici hanno visto rimandi a Teorema di Pier Paolo Pasolini. L'estetica di alcuni suoi film può essere ricollegata al cinema di Federico Fellini. Quanto conta il cinema italiano, per la sua formazione?
Moltissimo. La mia generazione è stata influenzata in modo decisivo dal cinema italiano. Quand'ero bambino, in tv passavano molti spaghetti western, e tanti altri film italiani di genere; e poi c'era anche un cinema italiano diverso, come quello di Fellini. C'era un'ampiezza e un ventaglio di scelta molto vasto. Nei film di Fellini c'era uno splendore, una bellezza e un'intelligenza che percepivo chiaramente. Quell'intelligenza, però, è propria degli italiani: noi non possiamo ricrearla, è una peculiarità che appartiene a voi. Noi giapponesi, semmai, dobbiamo creare qualcosa di nostro, che appartenga solo a noi.
Lei riguarda i film che ha fatto? Ce n'è uno, in particolare, che le fa dire "questo è Takashi Miike"?
Questa è proprio la domanda che detesto sentire: alla fine è arrivata! No, in genere non rivedo i miei film, dopo la loro presentazione ai festival. Anche quest'ultimo, non credo che lo rivedrò. Questo succede perché passo direttamente al set del lavoro successivo, che non vedo come qualcosa di così diverso dal precedente: ci saranno solo persone diverse, che volta per volta si avvicenderanno. E' un flusso che continua sempre, nel tempo. Il film che mi fa dire "questo sono io" è sempre l'opera più recente. Quel film rappresenta me in quel determinato momento: quindi, direi che ora è As The Gods Will. Quando avrò un'ottantina d'anni, se qualcuno si cimenterà in un suo rifacimento, avrà certamente la mia stima.