E' stato tra i titoli di punta, pur piazzato nell'ultima giornata della manifestazione, di questa nona edizione del Festival del Film di Roma: La Spia - A Most Wanted Man, porta con sé suggestioni che derivano solo in parte dal suo valore cinematografico, o dal suo essere, oggi più che mai, strettamente legato all'attualità. Il thriller spionistico di Anton Corbijn, infatti, è il primo dei due film postumi (l'altro, Hunger Games: Il Canto della Rivolta - Parte 1, lo vedremo a breve) del prematuramente scomparso Philip Seymour Hoffman. E, sicuramente, fa più sensazione vedere Hoffman qui, piuttosto che nella nota saga young adult: non solo perché il suo personaggio (una spia solitaria, disillusa ma con un forte senso morale) è di fatto il centro della trama, ma anche perché la malinconia che l'attore vi ha infuso genera inevitabili paralleli con la sua personalità.
In un incontro col regista Anton Corbijn, e con un altro "pezzo da novanta" del film, una leggenda cinematografica come Willem Dafoe, era dunque inevitabile parlare anche di Hoffman. Regista e attore non si sono sottratti, riconoscendo, fuor di retorica, il valore di un talento che tanto avrebbe potuto ancora dare moltissimo al cinema. Tuttavia, la discussione su La spia ha spaziato su temi dei più vari, dall'attualità del film (resa più drammatica dalla recente guerra contro l'Isis) al rapporto con l'originale romanzo di John Le Carré, fino al suo realismo nel rappresentare, fuori dalle spettacolarizzazioni, il lavoro di chi si occupa di intelligence.
Ricordo di un talento
Com'è stato rivedere il film dopo la scomparsa di Philip Seymour Hoffman?
Anton Corbijn: Sono stato contento che il film fosse già completato prima della sua dipartita, altrimenti avrei dovuto prendere certe decisioni, in fase di montaggio. Rivederlo dopo la sua morte è stato molto difficile: con quell'evento, il film ha assunto un peso che non pensavamo, e neanche volevamo, che avesse. Alcuni hanno tracciato paralleli tra la vita privata di Philip e la sua performance: quest'ultima in effetti è stata eccezionale, e guardandola a posteriori ci si può vedere un'intensità di cui forse, sul momento, non ci eravamo resi conto.
Willem Dafoe: Non ho più visto il film dopo la sua morte, ma ricorderò sempre il lavoro con lui: quei ricordi, per quanto mi riguarda, eclisseranno per sempre quello del film.
Il suo personaggio, com'è stato costruito? Lui vi ha apportato dei contributi?
Anton Corbijn: Abbiamo parlato molto del personaggio prima dell'inizio delle riprese: soprattutto, abbiamo ragionato su che lingua utilizzare nel film: un problema comune a molti film internazionali ambientati in Europa. Abbiamo deciso di usare un inglese con accento tedesco, perché era importante ci fosse un minimo di omogeneità, in particolare per i personaggi di Rachel e Philip. Per quest'ultimo, in particolare, lavorare sull'accento era fondamentale: questo infatti era il suo primo ruolo europeo, e voleva assolutamente essere preciso. Il suo personaggio lo abbiamo costruito insieme: si tratta di un uomo che è stato fottuto molte volte nella sua vita, ma che resta una brava persona, che riesce comunque a credere nell'umanità. E' un personaggio costantemente immerso nel lavoro, assolutamente non islamofobo, che non mostra grande cura e attenzione nei confronti di se stesso, proprio perché assorbito del tutto dal suo lavoro.
Dafoe, come attore: in cosa Seymour Hoffman era eccezionale?
Willem Dafoe: Parlare di lui è un compito difficile. È un attore che ho sempre ammirato e rispettato: uno di quei rari casi di attore americano che nasce a teatro, approda al cinema e poi torna a teatro. Mi ci identifico molto, perché anch'io ho fatto questo percorso. Lui ha iniziato con ruoli da caratterista, in cui magari era un po' vittima e ispirava simpatia; in seguito è cresciuto, ha ampliato i suoi orizzonti, acquisendo gravitas e complessità. Lavorare con lui è stata una cosa eccezionale: era una persona molto alla mano, con cui era facile interagire, non era per niente presuntuoso e capiva subito cosa era necessario per poter creare. Non esiste un "tipo" alla Philip Seymour Hoffman: era un attore davvero particolare, aveva la capacità di essere forte, solido, ma al contempo aveva quella flessibilità che gli permetteva di poter essere trasformato in qualsiasi personaggio.
Una città, i suoi colori e le sue storie
Corbijn, cosa le è piaciuto in particolare di Amburgo, una città in sé molto cosmopolita?
Anton Corbijn: Abbiamo usato Amburgo perché la storia è ambientata lì; come cineasta, è stato bellissimo girare in quella città, visto che è un'ambientazione insolita per un film. Qualsiasi luogo era bello perché nuovo, appariva fresco all'occhio dello spettatore, che non aveva ricordi di altri film che vi erano ambientati. Per un regista, questo è un dono eccezionale.
In questo film c'è una fotografia molto curata, e una vasta gamma di colori: nel mondo delle spie per esempio dominano il blu e il verde, all'interno della banca il giallo, mentre intorno al giovane troviamo soprattutto il rosso. Perché queste scelte?
Per me, era importante che risultasse come un film autunnale: anche per questo ho scelto una certa gamma di colori. Mi sembrava che il film dovesse parlare dell'autunno dell'umanità. In origine, la produzione voleva girarlo in estate, ma poi con Philip abbiamo fatto in modo di rimandare le riprese. Sono felice che ci siamo riusciti.
John Le Carré ha visitato più volte il set. Come si comportava in quelle occasioni, e lei come ha vissuto la sua presenza?
E' venuto più volte sul set, e io gli ho chiesto anche di partecipare in un cameo; alla fine, però, è rimasto un po' deluso perché sullo schermo il suo volto si vede poco. Poi, in seguito, io ho fatto un libro di fotografie tratte dal film, e allora si è riconosciuto. Certo, per un autore è sempre difficile vedere un proprio libro trasformato in film: ma la mia impressione, comunque, è che lui abbia dato un buon contributo al film. Ha detto una cosa importante, e cioè che il vero mondo delle spie è più vicino a quanto si vede nel film e nel libro, che ai film di James Bond: nella realtà, c'è molta meno azione e molto più lavoro di intelligence.
Interpretare l'attualità
Con questo film, in un certo senso avete avuto i riflettori addosso due volte: per la scomparsa di Hoffman, e per il fatto che il film, in questo periodo, è attualissimo. Questo come vi fa sentire?
Anton Corbijn: E' vero, è un film attuale, ma è un peccato che tutta l'attenzione si sia concentrata su questo aspetto. Io ho cercato di trasferire ciò che c'era nel libro, poi purtroppo le cose, a livello internazionale, si sono evolute in un certo modo. Il libro mi interessava perché raccontava come, dopo l'11 settembre 2001, le nostre vite siano state trasformate. Purtroppo, poi, la realtà ha superato la fantasia: per esempio, ci ha lasciati sconvolti apprendere che l'NSA aveva addirittura spiato il telefono personale della Merkel. Si sono verificati eventi che ci hanno portato a una realtà ancora peggiore di quella che immaginavamo.
Willem Dafoe: Nel film viene posta una questione fondamentale: quando si è di fronte a una persona sospetta, ma non se ne conoscono le motivazioni, cosa bisogna fare? Fermarla, prima che compia un atto devastante, o magari aspettare che ci conduca a qualche "pesce grosso"? È un calcolo che ti costringe a chiederti se puoi sacrificare certe vite per salvarne di più. Questo è il problema a cui ci si trova davanti, quando si opera nello spionaggio. I diritti dei singoli, poi, sono ridimensionati: quando c'è un pericolo imminente, molti sono disposti a rinunciare a una parte di libertà personale, in cambio del bene comune.
Dafoe, qui il suo ruolo è piuttosto piccolo rispetto a quello che le abbiamo visto interpretare in Pasolini. Affronta i due tipi di ruolo con lo stesso approccio?
Willem Dafoe: Per ogni progetto, c'è un approccio diverso. Il mio compito è sapere qual è il mio posto e il mio spazio all'interno di ogni film; se esageri con un ruolo limitato, non va bene, così come non va bene se non fai abbastanza con un ruolo più esteso. Devi individuare qual è la tua posizione nel mondo che viene creato, e come questa si attagli con quella che è la tua immaginazione. In un ruolo piccolo, non ti puoi concentrare troppo sugli antefatti di un personaggio, mentre in un ruolo più ampio, come quello che ho interpretato in Pasolini, devi fare una grandissima ricerca. E' quello che ho fatto io, ho convissuto per mesi con Pasolini, ho cercato di comprenderlo del tutto.
Corbijn, ha trovato difficile girare un film di spie diverso dal solito, con pochissima azione?
Anton Corbijn: Io, in realtà, un film d'azione non lo saprei fare. Questo è il mio film ideale, per ciò che ha richiesto: è un film che tratta di psicologia e di travaglio interiore, che va in fondo al mondo dello spionaggio, ti fa capire come questo viene svolto. Ci sono aspetti più psicologici rispetto ad un mero film d'azione.
Willem Dafoe: Io, dal mio punto di vista, non lo considero nemmeno un film di spionaggio: nel film faccio il banchiere, mi trovo davanti un uomo che mi chiede certe informazioni, e mi costringe a rivalutare del tutto la mia vita. Sì, è un film che tratta di spie, ma che soprattutto mostra personaggi che cambiano, perché si trovano costretti a interagire tra loro.