Brutti, sporchi e cattivi. L'indole dei documentaristi senza filtri. È la scuola di pensiero da cui parte Robinù, il documentario di Michele Santoro che scopre con ferocia inedita il sottobosco dei bambini soldato, adolescenti che nei bassi di Napoli si sfidano a colpi di kalashnikov per il controllo del territorio. La chiamano la 'paranza dei bambini', la mattanza di un nuovo cartello criminale formato dai giovanissimi Sibillo e dagli eredi del clan Giuliano.
Baby killer
La scelta è quella di far parlare alcuni di loro e allora la telecamera si accende e inizia il racconto. Gelido, diretto e senza la possibilità di ascoltare le domande che gli vengono rivolte. Poco importa, perché le loro testimonianze bastano a entrare in quella umanità fatta di madri straziate dal dolore, piccoli boss che fanno carriera, il carcere come microcosmo contiguo alla vita dei quartieri strappati alla normalità, le immagini santificate di chi non c'è più e viene ricordato come un Robin Hood. A 15 anni fanno il primo figlio e a 35 diventano nonni: sono ragazzi come Mariano, condannato a scontare 16 anni nell'Istituto Penale Minorile di Airola per omicidio aggravato da finalità camorristiche, distruzione e soppressione di cadavere, porto abusivo d'armi; o Michele detto 'Michelino', 16 anni anche lui con rito abbreviato per tentato omicidio, lesioni, rapina, detenzione illegale di armi.
La ferocia del reale
Lo sguardo sicuro del boss navigato e gli occhi di un adolescente rassegnato al destino che certi posti ti riservano, Mariano guarda in camera e spiega con naturalezza disarmante che "oggi comanda chi fa più reati, più reati fai più la gente ha paura di te". Ha imparato presto a sparare e a subire il fascino di un kalshnikov, 'u'kalash' come lo chiama lui: "È bellissimo - dice - è come avere una macchina a benzina invece che a diesel. È come abbracciare Belén. Con quello in mano non hai paura di niente, tiene 33 botte, è come camminare blindato". E dopo gli spari come ci si sente? "Né caldo né freddo, tiepido. Ti levi lo zolfo di dosso, ti pulisci, ti fumi una canna e stai apposto".
Michele invece ha iniziato a 13 anni, lo racconta con il sorriso beffardo e inconsapevole sulle labbra: "Era una rapina, era 'na cosa per scherzare", ma con la pistola in mano si sentiva un uomo. Per lui ciò che conta sono le femmine, il potere e i soldi, nient'altro. E poi c'è chi come Emanuele Sibillo è morto ad appena 19 anni: "Era bello, difendeva le persone deboli, pareva 'na specie di Robin Hood", quasi un fratello maggiore come ricorda qualcuno dei ragazzi più piccoli, poco più che bambini.
La mamma è come Dio, perdona sempre
Sono questi i volti della baby camorra di Robinù, che non fa sconti ai benpensanti e anzi sbatte in faccia quelle parole dure, vere, reali chiamando in causa una responsabilità collettiva addormenatata: è un sottobosco che è meglio dimenticare perché vederlo costa fatica. E poi ci sono le madri, le madri che perdonano perché "la mamma è come Dio, perdona sempre" e quelle che spacciano per 35 euro al giorno per pagare le bollette e dare da mangiare ai loro figli, visto che "spacciatrici si nasce". Ma non ci sono eroi da fiction, i killer ragazzini di Robinù crescono leggendo i libri di Cutolo, sanno chi è Totò Riina e vivono nel mito di Vallanzasca; davanti abbiamo un'intera generazione di sacrificabili amati incondizionatamente dalle loro famiglie, idolatrati dai giovanissimi e motivo di fascino sulle ragazze che non aspettano altro se non sposarne uno. Ragazzi dal grilletto facile: sarebbe comodo etichettarli così, ma le facce consumate, a volte irriverenti o semplicemente colte nell'istante dello spaesamento, non te lo consentono. No, nessuna assoluzione, semplicemente la forza della realtà e la dolente consapevolezza che quelle madri e quei figli si sarebbero potuti salvare, se solo uno Stato meno molle non si fosse girato a guardare dall'altra parte.
Movieplayer.it
3.5/5