Ci aspettavamo qualcosa di più da questo remake di Road House di Doug Liman, e invece dobbiamo dirci un po' delusi. Apriamo con questa piccola ma sincera nota di mestizia la recensione del film con Jake Gyllenhaal e Conor "Notorious" McGregor, perché credevamo davvero molto in questo progetto, che si è invece rivelato essere sufficientemente buono solo ed esclusivamente per meriti di genere.
Questa nuova iterazione del cult anni '80 con protagonista il compianto Patrick Swayze era in programma da quasi un decennio, ma non si era mai trovato il giusto regista e la giusta chiave di ri-lettura per ammodernarlo al presente, attualizzarne stile, personaggi e contenuti, almeno finché Gyllenhaal non si è detto interessato alla visione di Liman, patrocinata da MGM e dunque da Amazon. I problemi legati al Covid e i posticipi invece correlati allo sciopero degli sceneggiatori e degli attori hanno impedito poi al film di trovare una distribuzione cinematografica capillare, con Prime Video divenuta unica piattaforma esclusiva d'approdo al netto della contrarietà dello stesso regista (che voleva una distribuzione theatrical). Un lungometraggio, Road House, che vive soprattutto dei suoi eccessi e che funziona per la maggior parte grazie ai cari vecchi schiaffoni ben coreografati. Ma andiamo con ordine.
Dal ring alla spiaggia
Se la storia del Duro del Road House era ambientata nel Missouri e vedeva Swayze nei panni di un buttafuori professionista, venticinque anni dopo si cambia Stato e si cambia mestiere. A restare è soltanto il cognome del protagonista, Dalton, ma il nome è Elwood, un ex-lottatore della UFC caduto in disgrazia. Dorme in un'auto da quattro soldi, si ubriaca tutte le sere e scorrazza per locali poco legali per racimolare qualche soldo a suon di pugni e combattimenti clandestini, ma la sua fama lo precede e succede spesso che i lottatori rinuncino persino a fronteggiarlo. Assistendo a una simile scena, Frankie (Jessica Williams), proprietaria di una roadhouse nelle splendide Floria Keys, gli propone un lavoro ben retribuito per difendere il suo locale "da una clientela decisamente spiacevole". Elwood è però in lotta con dei demoni intestini che popolano i suoi incubi notturni, ricordi dell'incontro che gli ha per sempre cambiato la vita, allontanandolo dal ring. Decide comunque di dare un'occasione a questa possibilità di riscatto, trovandosi suo malgrado invischiato in qualcosa di più grande di lui, tra malavita organizzata e teppistelli in motocicletta, soprattutto spaventato dalle conseguenze di una sua eventuale escalation.
Per questo è sempre calmo, alla ricerca del dialogo prima del dolore, cordiale e pacato, amichevole e sorridente. È un uomo triste e disilluso che veste una maschera di gentilezza per ricordare soprattutto a se stesso di non usare più le sue armi per fare del male, sfruttando invece il suo know how da lottatore professionista (soprattutto anatomiche) per aiutare il prossimo a desistere dai suoi scopi violenti. Quando si ritrova davanti un nemico troppo ricco e viziato per capirlo (Billy Magnussen), accompagnato tra l'altro da uno scagnozzo completamente fuori di testa (Conor McGregor), Elwood è costretto a reagire per salvare la Road House di Frankie e difendere quella che vorrebbe diventasse la sua casa.
Road House, botte da orbi: il film raccontato da Jake Gyllenhaal e Conor McGregor
Le botte e il nulla
Questa nuova visione di Road House condivide con il suo predecessore soltanto lo stesso high concept e qualche revisionata scena cult, differenziandosi in tutto il resto. Dal Missouri si passa addirittura alla Florida - più a sud, più sole -, con un panorama urbano e naturale completamente diverso. È un film che evita il paragone a monte, presentandosi come un'iterazione volutamente estranea a quello stile troppo nostalgico, cinematograficamente parlando, e invece votata all'azione in senso moderno, dove il contatto si percepisce e l'UFC è una delle realtà più importanti del panorama sportivo occidentale legato alle arti marziali. La qualità, in questo senso, si percepisce da tanti aspetti: dalle coreografie, dalla naturalezza dei movimenti, dalle idee portate nel film dallo stesso Conor McGregor, che a quanto pare ha aiutato non poco a perfezionare il materiale d'azione legato agli scontri. E di questo vive, Road House: dell'attesa del contatto e della sua messa in scena, che è in effetti ottima nel montaggio e ben ragionata da Liman dal punto di vista dello spazio, dei movimenti macchina (c'è uno schiaffo verso l'alto con cambio di prospettiva davvero notevole), della fisicità di due interpreti muscolarmente in stato di grazia.
Il problema è in tutto il resto del contorno. Fosse stato pensato come un John Wick o un Io sono nessuno, avremmo accettato il compromesso, dato che sono esempi dove l'aspetto narrativo è un mero pretesto per scadenzare e ordinare o introdurre le sequenze di genere più esplosive, energiche o ricercate. In Road House la storia è invece predominante e questi scontri sono davvero pochi, per cui dalla visione ci aspettavamo qualcosa di più introspettivo, delle relazioni con i co-protagonisti meglio bilanciate, una love story credibile, persino un'evoluzione delle battaglia interiore di Elwood che sapesse emozionare. E invece poco o niente di tutto questo. Ci sono personaggio secondari introdotti come fondamentali che scompaiono in corso d'opera nel più totale disinteresse di regia e sceneggiatura, perché ovviamente anche Liman sa che il centro nevralgico dell'operazione è Gyllenhaal vs McGregor.
Peccato che quest'ultimo arrivi poco dopo metà film, quando ormai il racconto è completamente deviato, sciocco, fuori binario. In effetti, è il momento migliore per presentare il suo Knox, un villain concepito per essere un bulldozer impazzito, con il piede a tavoletta sulla follia. Tutto questo è anche divertente (ci sono alcune battute centrate, siparietti godibili), ma quando un prodotto è così sbilanciato da non riuscire a togliere quel velo d'inadeguatezza davanti agli occhi dello spettatore nemmeno quando entusiasma, allora c'è qualcosa che non va. E potremmo stare qui a discutere per ore su quanto sia efficace vedere McGreogr prenderle da Gyllenhaal e viceversa, o di quanto siano belli alcuni campi lunghi ideati da Doug Liman, ma i difetti permangono e non bastano due piacevoli schiaffoni a sistemarli.
Conclusioni
Più che remake, Road House è un re-telling, un'iterazione nuova e differente del cult anni '80 con Patrick Swayze. Dal Missouri ci spostiamo in Florida e Gyllenhaal condivide solo il cognome del suo personaggio con quello originale, mentre il resto è diverso, dallo spirito combattivo all'umore, dalle battute all'aura da badass che lo contraddistingue. Quando si arriva alle mani, il film intrattiene e costruisce ottimamente gli scontri, tra coreografie, movimenti macchina, musiche e montaggio, ma è il resto del contenitore ad essere vuoto e nemmeno così tanto pretestuoso come vorrebbe, concentrandosi invece molto - forse troppo - su di una storia e su dei personaggi per cui non c'è reale interesse narrativo. Si fosse votato alla fisicità assoluta, all'azione eccessiva e a trovate persino più assurde, a quest'ora staremmo parlando di un nuovo instant cult.
Perché ci piace
- La fisicità di Jake Gyllenhaal.
- Conor McGregor senza freni, un vero show steeler.
- La regia degli scontri, le intuizioni di Doug Liman.
Cosa non va
- Un racconto banale infarcito di cliché a cui viene dato troppo risalto.
- Co-protagonisti senza spessore, dimenticati da regia e sceneggiatura.