Il Grand Budapest Hotel è un'incantevole vecchia rovina, che è stata testimone di alcune delle più grandi e miserevoli vicende umane che la storia abbia mai conosciuto. E quando un fantomatico personaggio dietro cui si cela un noto romanziere, inizia a raccontarcene qualcuna, siamo nel 1985. Con un passo indietro arriviamo al 1968. Il giovane narratore è un uomo curioso di tutto e in particolare di quel mondo favoloso che è stato il Grand Budapest Hotel e che più non è; interroga il portiere per capire qualcosa in più del luogo che ha scelto per trascorrere parte della sua solitaria esistenza. Incontra così Zero Moustafa, proprietario dell'albergo e custode dei suoi segreti. Nel momento in cui Zero inizia a svelarli, finalmente si può aprire il sipario su Gustave F. concierge nel 1932 e su quell'umile fattorino (Zero appunto) che l'uomo ha messo subito sotto la sua ala protettiva.
Elegante, raffinato, profumatissimo, Gustave ama donne di una certa età (tutte le avventrici dell'albergo, ad essere sinceri). Una di loro, Madame D., sarebbe disposta a tutto pur di averlo sempre al suo fianco. Alla morte violenta della donna, Gustave riceve in eredità un quadro di grande valore, Il ragazzo con la mela, scatenando l'ira funesta del figlio di Madame, Dmitri, e del suo violento scagnozzo Jopling, affiliato da tempo ad un gruppo militare chiamato Zig Zag (ZZ). Iniziano così una serie di peripezie per il povero Gustave, accusato ingiustamente dell'omicidio e finito in carcere per questo. Supportato dal fedele Zero e dalla dolce fidanzata del ragazzo, la pasticcera Agatha, Gustave riesce a dimostrare la propria innocenza. Ma il suo mondo perfetto è destinato a durare molto poco.
Il gigante della montagna
"The beginning of the end of the end of a beginning has begun", racconta Zero al suo interlocutore per segnare precisamente il momento in cui l'inizio della fine è cominciato, quando cioè la brutalità degli uomini della ZZ (i nazisti, ovviamente) irrompe nell'albergo, splendidamente isolato sul cocuzzolo di una montagna. E questo è anche il cuore del nuovo film di Wes Anderson, The Grand Budapest Hotek, scelto per inaugurare la 64.ma edizione del Festival di Berlino. E' un'opera che rispetta tutti i 'canoni' della poetica di questo originalissimo regista americano (con famiglie disfunzionali e amori giovanili salvifici) che ci offre un'amara, spiazzante e illuminante riflessione sul progressivo e orribile imbarbarimento umano, mantenendo fede al proprio stile iperrealistico e grottesco; un pensiero, il suo, che non lascia indifferenti, non se si amano le storie, o meglio la bellezza del raccontare le storie. L'autore si diverte infatti a celare la complessità dietro a rivoli di crema al burro; e così come i dolci che prepara Agatha vengono rafforzati dall'interno per favorire la fuga dal carcere di Gustave, il film possiede un cuore duro, che è il ragionamento sul definitivo tramonto di un'epoca, scomparsa ancor prima di svanire nella realtà.
Essere Zero (e tutti gli altri)
Che Anderson sia un affabulatore nato è cosa risaputa, ma in questo caso, grazie all'ispirazione di un autore come Stefan Zweig, pur se in maniera meno impressionante di altre volte, riesce a portarci dentro il racconto, negli incastri della favola, e alla fine diventiamo come l'anonima lettrice che legge rapita su di una panchina, il libro intitolato The Grand Budapest Hotel. Scopriamo dunque che la qualità principale di uno scrittore non è sempre la fantasia, la continua connessione con i propri pensieri, ma è la capacità di ascoltare e vedere le persone, che sono tutte portatrici di storie. L'elemento più riuscito del film, infatti, è la sua struttura a scatole cinesi, con una partenza nel 1985 e poi, a ritroso, nel 1968 e 1932. In questa estensione temporale, che è un inno al puro gusto del racconto, Anderson riesce molto bene a mostrare l'evoluzione dei protagonisti, su tutti quello Zero Moustafa, interpretato da Tony Revolori e successivamente da Frank Murray Abraham, che è uno dei due poli del racconto assieme a quello rappresentato dallo scrittore, Jude Law prima e Tom Wilkinson poi. Ecco perché ogni personaggio ci appare completo, ricco, descritto con meticolosità dal dettaglio fisico, a quello 'morale', quel tratto, cioè, che ne definisce in pieno il carattere, come la vanità e il gusto decadente di Gustave, ma anche la sua dolcezza, l'umiltà di Zero o la stupidità dei familiari di Madame D.
Il sistema degli oggetti
Anderson, inoltre, è forse uno dei pochi a saper valorizzare narrativamente gli oggetti, infondendo vita in ognuno di essi. I mezzi di trasporto sono curatissimi nei loro bislacchi dettagli, così come gli attrezzi del mestiere di Agatha. C'è un sentimento in ogni cosa, che non vuol dire rappresentare con sentimentalismo la realtà, ma trasformare ciò che è inanimato (una lettera, un binocolo, una bottiglia di profumo) in un elemento chiave della scrittura e della descrizione del personaggio. Tutto insomma contribuisce a definire la mappa di un mondo in rovina, l'Europa prima della Seconda Guerra Mondiale, scintillante e rassicurante all'inizio e via via sempre più avvolta dall'oscurità. In questo viaggio alla scoperta dell'inizio della fine, Anderson si fa accompagnare dai suoi attori del cuore, come Bill Murray, Edward Norton, Owen Wilson e Tilda Swinton, impegnati in brevi ma significative interpretazioni e da una coppia inedita (e azzeccata) di protagonisti, Ralph Fiennes e il già citato Revolori.
Movieplayer.it
4.0/5