Scontro tra titani
Parlare del Ron Howard regista, da sempre, equivale a parlare di blockbuster. Le qualità da artigiano dell'immagine (di serie A) dell'ex-Richie di Happy Days, per quanto ci riguarda, non sono mai state in discussione: neanche in tempi recenti, quando il regista si è impegnato in discutibili operazioni sbanca-botteghino quali Il codice da Vinci (e relativo sequel) o quando la sua perizia registica è stata messa al servizio di commedie evanescenti, come il recente Il dilemma. La lunga carriera di Howard, d'altronde, parla di un cineasta certamente scaltro, abile nello sfruttare trend e mode (il fantastico naïf di Cocoon, l'energia dell'universo e Willow negli anni '80, il catastrofico che parla allo spirito americano di Fuoco assassino, il dramma confezionato per l'Academy di A Beautiful Mind; ma potremmo andare avanti a lungo) ma anche indiscutibilmente dotato. Non deve stupire, quindi, che il sodalizio che ha prodotto una delle migliori opere della recente produzione di Howard, quello con lo sceneggiatore Peter Morgan (autore del copione di Frost/Nixon - Il duello) si sia qui rinnovato: non deve stupire, in virtù del fatto che il racconto della storia di Niki Lauda e James Hunt richiedeva una buona qualità di scrittura, tale da evitare il rischio retorica (sempre in agguato, quando si trattano archetipi come la tensione e l'amicizia tra rivali) e anche da non adagiarsi sulle prove attoriali, qui di notevole fattura, dei due protagonisti Chris Hemsworth e Daniel Brühl.
Rush parte raccontando, parallelamente, la formazione automobilistica di Lauda e Hunt, la gavetta dei due piloti e l'approdo in Formula 1, per poi concentrarsi sul Campionato Mondiale del 1976: stagione drammatica, ma indimenticabile per qualsiasi appassionato, che fu caratterizzata dall'incidente di Nürburgring che quasi costò la vita a Lauda, lasciandolo sfigurato; nonché dall'incredibile recupero del pilota austriaco, tornato in pista solo 42 giorni dopo l'incidente e arrivato, malgrado il lungo stop, a un passo dalla conquista del titolo. La prima parte del film si concentra sulla presentazione dei due caratteri, giustapposti come espressione di approcci diametralmente opposti all'automobilismo (e alla vita): disciplinato, calcolatore e poco incline all'espressione di emozioni Lauda (si ricorderà il suo soprannome, "Il Freddo"), istintivo, passionale, e sempre portato agli eccessi Hunt. Una contrapposizione basilare, quasi schematica, funzionale alla messa in scena di due poli contrapposti, intorno ai quali ruoterà tutto il racconto: ma quest'apparente schematicità, va detto, non può essere considerata un difetto. Quello che Howard porta sullo schermo è un racconto epico, la messa in immagini di un confronto che era già stato caricato di toni mitici dalla cronaca sportiva d'epoca: una narrazione in nuce già cinematografica, quindi, che semmai (processo paradossale, ma non troppo) il grande schermo doveva occuparsi di rendere più realistica, mettendone in evidenza le zone d'ombra. E questo compito, la sceneggiatura di Morgan lo assolve bene. Di Lauda, oltre alla lucida e quasi calvinista dedizione al lavoro, vediamo il carattere solitario, l'allontanamento dalla famiglia, il fare spigoloso e poco amichevole, evidente anche nel rapporto col compagno/rivale Clay Regazzoni (a cui dà il volto un sempre apprezzabile Pierfrancesco Favino); mentre del suo rivale è evidenziato il costante pensiero della morte, presenza incorporea (ma dai devastanti effetti concreti) che aleggia su tutto il film, e che il personaggio di Hemsworth tiene lontana con i suoi eccessi. Se è vero che, negli anni '70, gli incidenti sui tracciati automobilistici erano ben più frequenti di oggi, ciò viene sfruttato dallo script per colorare il racconto di un tono plumbeo, aumentandone nel contempo la dimensione mitica. La regia di Howard, supportata da un perfetto uso del montaggio (sia nella fase iniziale, in cui seguiamo le vicende parallele dei due piloti, sia nella messa in scena delle corse) è quanto di più classico si possa immaginare: il regista americano, come si diceva in apertura, sarà forse un mestierante, passato con scaltrezza attraverso le tempeste che hanno agitato la Hollywood dell'ultimo trentennio: ma la sua concezione della messa in scena, unitamente alla sua formazione (non vanno dimenticate le frequentazioni con Roger Corman, Don Siegel, nonché quella - più nota - col miglior George Lucas) lo rendono lontano anni luce dagli shooter moderni. Il regista infonde, con sicurezza, un gran ritmo alla vicenda, mentre le sequenze sui circuiti (alternate a un uso parco, e funzionale, delle immagini di repertorio) chiamano lo spettatore a un coinvolgimento quasi fisico. Il climax costruito dallo script carica di un'ottima tensione "di genere" l'attesa per il confronto finale: in fondo, l'appassionato che sa benissimo come finirà, può (quasi) far finta di non conoscere la storia. Difficile, nello specifico, chiedere di più.
Movieplayer.it
3.0/5