Università di Oxford, ai giorni nostri. Il Riot Club è un circolo esclusivo, con oltre due secoli di storia, fondato da un gruppo di studenti intenzionati a differenziarsi e lasciare il segno nella vita dell'istituto. Fin dalla sua nascita, la rigida esclusività del club si è fusa con gli atteggiamenti anarchici e dissoluti dei suoi partecipanti, tutti tesi a sottolineare un'onnipotenza di fatto dettata dallo status. Ora, due nuovi studenti vengono ammessi a far parte della congrega: Alistair Ryle, fratello di uno dei suoi più stimati membri, tuttora visto come una leggenda dalle matricole, e Miles Richards, studente tranquillo ma irretito dalla vita di eccessi e ostentazione del club.
Due volte l'anno, i rioters organizzano una cena in cui prendono in affitto, solo per loro, un'intera stanza di un locale, abbandonandosi ad un vortice di alcol ed eccessi di ogni genere. Questa volta, però, le cose sfuggono loro di mano, e la "notte brava" del Riot Club arriva a un passo dal trasformarsi in tragedia: i suoi membri dovranno scegliere tra trovare un capro espiatorio, che paghi per tutti, o compromettere definitivamente la reputazione del circolo. Abbandonato dalla sua nuova fidanzata, confuso e lasciato solo dai suoi stessi compagni, Miles sarà chiamato da par suo a una scelta di campo.
Teen, e non solo
Che dietro un progetto come quello di Posh ci sia anche la volontà di sfruttare il volto, e la popolarità, di alcuni giovani astri nascenti del firmamento attoriale britannico, è fuor di dubbio. Il figlio (e nipote) d'arte Max Irons, i lanciati Douglas Booth e Sam Claflin, la futura Cenerentola Holly Grainger, hanno i lineamenti e il fisico giusti per attrarre un pubblico di giovanissimi, che si muove tra le prove degli Hunger Games e i romanticismi telematici dei LOL - Pazza del mio migliore amico, con un occhio alla serialità da piccolo schermo e il dito sempre pronto a twittare le gesta dei propri beniamini.
Il bagno di folla che ha accompagnato l'arrivo dei tre divi a Roma, e la successiva anteprima del film, sono il segno di una strategia di marketing cinematografico che ha dato i suoi frutti. Eppure, il film di Lone Scherfig, tratto da un'opera teatrale di Laura Wade (e da quest'ultima sceneggiato) non può essere ridotto a mero teen movie: se non altro perché, dietro i gradevoli volti dei protagonisti, la regista mette in scena un universo giovanile tutt'altro che rassicurante, caratterizzato da un horror vacui decadente e cinico. In modo più essenziale e realistico rispetto a soggetti analoghi (pensiamo al The Skulls - I teschi di Rob Cohen) il film descrive il mix di ostentazione, colpevole ingenuità, e confuso anarchismo borghese, che contraddistingue la realtà di alcuni club studenteschi. Il non banale sguardo della regista sull'universo giovanile, già sperimentato in An Education e One Day, viene qui riproposto in un contesto ancora più problematico.
Un club alla "ribalta"
La Wade riadatta intelligentemente il suo soggetto, di origine teatrale, alle caratteristiche di un medium che vuole (almeno per questo tipo di storie) soluzioni di altro genere. Nonostante la sua pièce fosse caratterizzata dall'unità di luogo e di tempo, concentrandosi unicamente sulla cena che sta al centro della storia, la sceneggiatrice sceglie di non fare di Posh un dramma da camera, dando alla vicenda un respiro più ampio. Scelta che, laddove allarga l'obiettivo e descrive il background dei personaggi, si rivela vincente: a partire dal prologo, un flashback dai toni gotici che racconta le origini del club, alla presentazione dei due protagonisti e della sottile rivalità da loro subito instaurata, fino all'innesto del personaggio femminile della Grainger. Scelta, quest'ultima, funzionale a enfatizzare le differenze tra il "fuori" e il "dentro" il club, caricando ancor più quest'ultimo della sua aura di universo a sé; isola seducente e pericolosa in cui l'ingresso si paga, faustianamente, con la rinuncia a se stessi. Non a caso, all'irruzione del personaggio di Lauren nella cena, ingresso di un elemento alieno in un contesto chiuso e autoreferenziale, i membri del club reagiscono con violenza, verbale e anche fisica. E, non a caso, le conseguenze di questa intrusione sugli equilibri del gruppo saranno tutt'altro che secondarie. Più in generale, la regista mostra uno sguardo non giudicante, ma complessivamente tutt'altro che benevolo sull'universo giovanile al centro della trama: da un lato, ne svela la fascinazione, dall'altro ne mette in mostra gli elementi più repulsivi, culminati nella violenza dell'ultima parte.
L'estensione di un potere
Il film della Scherfig ha quindi il merito di organizzare in un crescendo di tensione, e in un arco spaziale e temporale più ampio, un soggetto nato con altre premesse e pensato in una diversa dimensione; lasciando emergere soltanto nella seconda parte la natura bestiale, ma così desolantemente umana, di un'organizzazione che replica in piccolo logiche già esistenti nella società borghese e adulta (e infatti il tema dell'individualismo liberista, già presente in controluce nella prima parte, diventa esplicito nei deliranti sermoni di un Sam Claffin ormai preda dell'alcol). Qualche eccessiva verbosità, Posh la mostra, forse, soltanto nell'ultima parte, quando la conclusione della vicenda chiama a una risoluzione che sveli, da un lato, l'estensione e la pervasività di un potere, dall'altro la resa dei conti interna al gruppo dei protagonisti (che diviene, per alcuni, occasione di ripensamento critico sulle scelte fatte). Tutto narrativamente necessario, ma forse troppo esplicito, un po' controproducente nella sua esigenza di svelare, spiegare in modo pedante, ciò che poteva essere semplicemente suggerito, o meglio lasciato alla libera interpretazione dello spettatore. Gli ultimi minuti finiscono per lasciare, in chi guarda, un sapore di posticcio, che stona con l'efficacia drammaturgica del resto del film. Non riuscendo comunque, per fortuna, a cancellare la memoria di quest'ultima.
Conclusioni
Posh si rivela un buon thriller drammatico, che riesce a sfruttare il carisma e il magnetismo delle sue giovani star senza lasciarsene schiacciare. La cura della confezione (e della resa scenica di corpi e volti) non inficia la credibilità di un universo rappresentato col giusto grado di sgradevolezza e realismo; e qualche limite narrativo, nell'ultima parte, non fa perdere compattezza e forza drammatica al tutto.
Movieplayer.it
3.0/5