L'esordio alla regia di Emanuele Cerman racconta uno dei più scioccanti casi di cronaca nera della storia italiana: ma il suo motivo di interesse principale sta in una rilettura che, lungi dal dire una parola definitiva sulla vicenda, dissemina dubbi e trasmette inquietudine.
Raccontare un caso come quello delle Bestie di Satana, al cinema, è sicuramente un azzardo. Azzardo dovuto, principalmente, al carattere recente del caso, all'enorme attenzione mediatica che questo ha suscitato, all'inusitata violenza dei fatti. Al di là del (morboso) appeal giornalistico che una vicenda del genere possiede, e dell'infinità di ricostruzioni che ha generato, produrre un'opera di fiction ispirata ad essa significa avventurarsi su un terreno minato. Più ancora se, come nel caso dell'esordio di Emanuele Cerman, l'approccio scelto è quello di una ricostruzione che suscita dubbi, dissemina interrogativi, propone percorsi di lettura alternativi al caso. Quest'ultimo, lo ricordiamo, consiste negli eventi (accertati) di tre omicidi e un suicidio indotto, verificatisi nella provincia di Varese tra la fine degli anni '90 e l'inizio del decennio successivo; di essi, è stata considerata responsabile un'organizzazione satanista, dedita all'abuso di droghe, guidata da due giovani, Nicola Sapone e Paolo Leoni. La violenza dei crimini, e la giovane età delle persone coinvolte, provocò un'enorme eco mediatica, al punto che l'inglese BBC definì gli omicidi "tra i più scioccanti della storia d'Italia del dopoguerra". Il film di Cerman, girato nel 2012, fu presentato in un primo montaggio nel corso del Rome Independent Film Festival di quell'anno, per poi rimanere in un lungo "limbo" distributivo; nel corso di questo periodo, il film subirà un nuovo montaggio, prima di vedere finalmente le sale, in questo 2014, grazie all'acquisto da parte di Distribuzione Indipendente.
Sinergia creativa In Nomine Satan nasce, in realtà, in un'altra dimensione e con un altro "padre": il progetto, infatti, era inizialmente destinato al piccolo schermo (in forma di miniserie) ed era stato pensato in questa dimensione da Stefano Calvagna. In seguito, il regista romano, che aveva già collaborato con Cerman nel suo Cronaca di un assurdo normale, rinuncia alla regia a causa di momentanei problemi di salute; il progetto, nel frattempo trasformato in un'opera destinata al grande schermo, viene così passato all'attore e sceneggiatore, che ne riscrive in parte il copione e ne assume la regia. Guardando il film, non è difficile pensare che, se lo avesse diretto Calvagna, il risultato finale sarebbe stato probabilmente diverso; ma anche che l'opera vive proprio della sintesi tra due diversi e complementari approcci. L'attenzione a una realtà metropolitana sporca e pericolosa, e ai crimini notturni nascosti dal velo scintillante della città, è caratteristica ascrivibile all'approccio al cinema del regista di Rabbia in pugno; ma la moltiplicazione dei punti di vista, la struttura non cronologica della narrazione, e il rifiuto di una lettura univoca della vicenda, sono elementi palesemente introdotti dal neo-regista. Questa sinergia, che sottolinea la natura composita dell'opera, ma anche il suo rifiuto a una catalogazione troppo schematica, rappresenta senz'altro uno dei principali motivi di interesse del film.
Registri e punti di vista multipli
Cerman, che dimostra idee molto chiare sull'effetto (destabilizzante) che vuole instillare nello spettatore, narra la storia come un thriller, fa uso di un montaggio che alterna passato e presente, ricostruisce gradualmente l'omicidio da cui origina l'indagine; offrendo inoltre, sull'intera vicenda, un insieme di ottiche diverse, comprese quelle dei responsabili dei delitti. Anche il registro muta più volte nel corso del film: da quello della crime story, presente nella prima parte, a quello documentaristico della ricostruzione dei delitti passati; fino a un'affascinante, problematica componente onirica, esplicitata soprattutto nei sogni del procuratore protagonista, che ha proprio il volto di Calvagna. Quest'ultimo si fa coinvolgere sempre più da un'indagine che, nel suo svolgimento, offre un insieme di indizi che puntano dapprima verso il satanismo, poi (forse) verso una realtà ancora più oscura e complessa; indizi contrappuntati dai citati inserti onirici, in cui spicca una riuscita e inquietante personificazione del diavolo, un nano lynchiano col volto dell'attore Fabiano Lioi. L'assenza di un punto di vista prevalente viene forse scontato sul piano dell'identificazione, e della capacità da parte dello spettatore di empatizzare con un singolo personaggio: ma il film chiama chi guarda a un punto di vista esterno, e alla costruzione di un proprio percorso di lettura alle immagini e (soprattutto) agli eventi raccontati.
Forze oscure al lavoro
Il fatto che il film rifiuti, coerentemente, di adottare l'ottica di un singolo personaggio sulla vicenda, non significa che il punto di vista più generale del regista non venga fuori. Ed è quest'ultimo, esso stesso, un punto di vista che si astiene accuratamente dall'offrire una lettura definitiva dei fatti, ma che si caratterizza comunque per lo scetticismo nei confronti della ricostruzione ufficiale. Se In Nomine Satan si limitasse al racconto, più o meno fedele, dei delitti delle Bestie di Satana, e degli eventi ad essi collegati, il risultato sarebbe probabilmente banale; è in quel "di più", in quell'inquietante, sfuggente sentore di forze oscure al lavoro, di un potente burattinaio che muove i fili, che si misura l'efficacia del film. Non interessa, qui, valutare la giustezza del punto di vista, l'opportunità di inquadramento del caso nell'ambito della mera cronaca nera, o in qualcosa di diverso e più complesso; preme invece, dal nostro punto di vista, specificare che in questa istanza di ripensamento (critico) della materia, sta il cuore e il principale motivo di interesse del film. Cerman dissemina la narrazione di simbologie esoteriche (il bafometto templare, la rosa sul diario di una vittima), lascia aperte, senza apparente giustificazione narrativa, alcune parentesi (la mancata preparazione della buca in cui verranno ritrovati due cadaveri), fa pronunciare al leader dell'organizzazione, interpretato da Tiziano Mariani, un monologo solo apparentemente sconnesso e autoassolutorio. La conclusione della vicenda, e in special modo l'ultima sequenza, destabilizza, insinua dubbi, chiama a una rilettura di ciò che si è appena visto. E alla fine, indipendentemente da ciò che si voglia pensare del caso, mentre iniziano a scorrere i titoli di coda, resta addosso un senso di inquietudine innegabile.