La tecnologia è il male?
Dopo Ringu, che usava le videocassette come strumento per diffondere il male, Hideo Nakata torna a prendere la tecnologia come punto di partenza per le sue storie, come fonte di problemi e tensioni o mezzo usato dalle forze del male, che siano umane o sovrannaturali, per agire. I tempi sono cambiati e l'autore decide di puntare l'indice verso internet e tutto il sistema di social network e chat che ne costituisce la tessitura al giorno d'oggi per l'utente comune: se sia o meno un vero atto d'accusa per il mondo della tecnologia o semplicemente un rivolgersi al mondo contemporaneo per trovare spunti interessanti da cui far partire le sue storie, oggetti di uso comune che possano coinvolgere e far immedesimare il grande pubblico, è tema da approfondire in altra sede.
Oggetto di questa recensione è Chatroom, il nuovo film dell'autore giapponese, prodotto in Gran Bretagna e presentato all'edizione 2010 del Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard, che racconta l'incontro online di cinque ragazzi e di come uno di loro, dalla personalità disfunzionale, cerchi di manipolare gli altri e, isolandolo, condurre il più fragile di loro su una strada senza ritorno, togliendogli le sue (poche) sicurezze e spingendolo verso il suicidio, in un gioco psicologico sottile e sadico.
A dare vita ai cinque protagonisti sono stati chiamati altrettanti giovani attori inglesi, tutti con diverse esperienze alle spalle o riconoscimenti nel circuito dei premi, tutti adatti ai personaggi loro assegnati e più o meno convincenti nel portarli sul grande schermo: Aaron Johnson, candidato lo scorso anno ai BIFA per Nowhere Boy, dà il volto a William, il protagonista disfunzionale della storia; tre protagonisti di Skins, Matthew Beard, Hannah Murray e Daniel Kaluuya, sono rispettivamente Jim, il più fragile del gruppo, Emily e Mo; completa la cinquina Imogen Poots, già vista in V per Vendetta e 28 settimane dopo e candidata come miglior attrice emergente ai BIFA nel 2007.
Ma come visualizzare l'ambiente virtuale delle chat e renderlo realistico (per chi li vive abitualmente), cinematografico e coinvolgente? Impensabile affidarsi a soluzioni di tipo testuale, troppo poco accessibili. Scontato, troppo freddo ed impersonale affidarsi a soluzioni basate sulla computer graphic, in stile Second Life. E' questa la vera sfida che ha dovuto affrontare Nakata, che ha deciso di raccontare la storia spostandosi tra due piani narrativi: quello del mondo reale, messo in scena con toni desaturati che gli danno un look deprimente e piatto, come le vite quotidiane, dense di problemi, dei protagonisti; dall'altro quello dai toni vividi ed accesi dell'ambiente delle chatroom, in cui ognuno dei personaggi ha un suo spazio che ne rappresenta la personalità o un aspetto di essa, in cui le room in cui chattare sono delle vere e proprie stanze nel senso comune del termine, arredate secondo il gusto dei loro creatori.
La soluzione del regista giapponese funziona a tratti, grazie ad alcune trovate interessanti che confermano quanto l'autore sappia gestire l'atmosfera e la tensione. Purtroppo per lui, i suoi sforzi poggiano su una sceneggiatura un po' troppo semplicistica, che pecca nell'approfondimento dei personaggi e delle loro motivazioni, fondamentali per sostenere il tipo di storia che si cerca di raccontare, scivolando in un finale un po' frettoloso e poco incisivo, in cui i due piani narrativi convergono, ma senza raggiungere il climax che ci si aspetterebbe.Movieplayer.it
2.0/5