Ancora una volta è un romanzo ad ispirare il film di Saverio Costanzo che dopo l'adattamento di La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, si cimenta nella trasposizione del libro di Marco Franzoso, Il bambino indaco. Quasi ci fosse una volontà, da parte del regista, di ancorarsi alla pagina scritta per cercare una completezza narrativa che ancora manca. Hungry Hearts racconta la storia di una coppia affiatata la cui vita viene sconvolta dall'arrivo di un figlio. Per Mina, italiana trasferitasi a New York per lavoro, quel piccolino sarà speciale perché porta con sé, come tutti i bambini indaco, caratterizzati da un'aura favorevole, una carica ed una forza non comuni.
Decide così di smettere di mangiare per evitare di introdurre nel proprio corpo sostanze nocive. La gravidanza è per forza di cose complicata e il marito Adam non può fare altro che prendere atto di una condizione di pericolo per i due. Condizione che si protrae anche alla nascita del bambino. Mina, infatti, lo nutre in maniera inappropriata per un neonato e nonostante le rimostranze del medico curante e dello stesso Adam, continua implacabilmente su questa strada. Fino a quando la situazione non precipita e il marito decide di sottrarle il piccolo, per salvarlo da morte certa.
Cuori affamati
Insoddisfazione e una miriade di domande lasciate senza risposta hanno accompagnato la visione del film di Saverio Costanzo, un'opera ambiziosa, e di questo va dato atto al regista capitolino, che spreca da subito le tante frecce al proprio arco, con una narrazione farraginosa e superficiale. Non è una scelta sbagliata evitare le derive e gli effettacci del sentimentalismo spicciolo, contraendo il racconto, scarnificandolo fino alla fine, ma se l'emozione non arriva, allora vuol dire che il ritmo è stato tenuto troppo imbrigliato e soprattutto che certi snodi narrativi siano stati affrontati in maniera frettolosa, distogliendoci dalla complessità di una tragedia mostrata per sommi capi. Il punto è proprio questo, si sta parlando di una situazione nettamente patologica, senza affondare le mani nella questione, anzi sorvolando su tematiche possenti come maternità non voluta, malattia psichica, rapporto uomo-donna.
Costanzo diluisce questo succo, denso di implicazioni, in una narrazione glaciale e confusionaria. E' un problema sostanziale che non può essere mascherato dalla confezione, pur accattivante, che richiama gli stilemi di un certo cinema indie. Hungry Hearts parte come una commedia romantica, con una sequenza anche simpatica, diventa un dramma familiare, e poi vira verso l'horror, con tanto di grandangoli deformanti, musica paurosa e primi piani spettrali. Forse è troppo per un film che, al netto di tutto, parla (o almeno dovrebbe) di malattia e amore; la malattia che porta Mina a far fuori la realtà della nascita del figlio e quella spinge un uomo accecato dal sentimento che prova verso la moglie a chiudere gli occhi.
Doppia maternità
Nel primo anno di vita un bambino deve necessariamente essere accudito, a livello fisico, psichico e affettivo; la gravidanza umana non è, come dice la madre di Jude, equiparabile a quella dei cani, né, come sostiene Mina, un processo che si fonda sulla sottrazione e purificazione. Siamo quindi di fronte a due idee di maternità distorta, tossica. Che un argomento del genere sia stato affrontato con superficialità da Costanzo è di per sé cosa grave, ancora di più se si pensa di voler parlare d'altro, come se la questione non avesse attinenza con una patologia seria. Se la pazzia fa ancora paura, tanto da considerarla il mostro nero che tutto inghiotte, compresa ogni spiegazione narrativa sensata, la situazione non è affatto confortante.
Costanzo sa girare bene, eppure qualcosa non colpisce fino in fondo, come se il cuore della storia fosse coperto da troppe altre cose, in prima battuta dalla volontà di condurre il racconto a strappi. Quando viene liberato dal peso di una narrazione troppo farraginosa, arriva quell'impennata che tanto si cerca, ma è poca cosa. I momenti più intensi, quelli che si fissano nella memoria, allora, sono i dialoghi tra Jude e Mina. E' questo il nucleo fondante della pellicola ed è qui che si fa fatica ad arrivare. E se il miracolo talvolta si compie è soprattutto grazie all'interpretazione di Adam Driver, credibile nel restituirci i dilemmi di un uomo che non comprende più la donna che ha sposato (Alba Rohrwacher), incapace di porre un freno alla sua deriva distruttiva, quindi in parte complice, timoroso fino alla fine di prendere la decisione più giusta per tutti.
Conclusione
Delusione e inquietudine ci hanno tenuto compagnia durante la visione del film di Saverio Costanzo, un'opera ambiziosa, dal respiro internazionale e lo stile accattivante, che maschera una tragedia contemporanea con una narrazione confusa e inconsistente.
Movieplayer.it
2.0/5