Il cinema è il mio Dio
Non è per niente facile affrontare un film come Hard to be a God, immane opera cinematografica su cui il regista russo Aleksey German - scomparso nel febbraio di quest'anno - ha lavorato per ben quattordici anni (di cui sei dedicati alle riprese). Non è facile per la complessità del film e per la sua incredibile ricchezza visiva, per l'impossibilità di imprigionarlo in una trama e in una sinossi (visto il modo in cui travalica e travolge anche le forme più eversive di narrazione cinematografica) e per la potenza, l'abbacinante sfida che lancia al concetto stesso del cinema, della sua funzione, dei suoi codici e della sua ricezione.
Ispirato al romanzo di fantascienza omonimo scritto dai fratelli Arkadij e Boris Strugackij e pubblicato nel 1964, il film racconta - sulla carta - l'esperienza di alcuni scienziati che dalla Terra - in cui ormai la civiltà ha raggiunto uno stadio di perfezione - vengono spediti nell'immaginario pianeta di Arkanar, ancora fermo a una condizione di vita medievale. Il loro compito è di far progredire quella società arretrata, ma la bestialità dell'essere (umano e non) farà in modo tale che le cose finiranno per avvolgersi in una indistinta melma di decadenza, di sozzume, di trivialità e di auto-distruzione. Il film di German però non ha nulla della fantascienza - almeno della fantascienza che abbiamo imparato a conoscere - quanto piuttosto assume una dimensione di "mai visto", di inaudito, di arretratezza infinita di usi e costumi con allo stesso tempo la sensazione vividissima di una loro eternità, dell'eterno consumarsi dell'esistere.
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Detto ciò, la mirabile forza di Hard to Be a God è nella sua incredibile ricchezza visiva, una sorta di lotta estrema all'_horror vacu_i che fa sì che al contrario ogni inquadratura sia piena di dettagli, di movimenti, di situazioni che accadono contemporaneamente; situazioni che vengono sempre in qualche modo dominate da Don Rumata, il cui interrogativo - come si comporterebbe Dio al mio posto? - rimane inevitabilmente senza risposta.
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Su di un piano puramente visivo sembra essere questo il lavoro fatto da German nel suo film: una incessante ridefinizione del materiale a disposizione e il ricorso all'occupazione completa dello spazio cinematografico con un uso sbalorditivo della profondità di campo (oggetti di quinta che appaiono all'improvviso, personaggi che entrano in campo e attraversano improvvisamente il quadro, uccelli che volano la cui verosimiglianza ha tratto in inganno il pubblico ancor più che se si fosse trovato alla proiezione di un film in 3D). Il tutto mostrato però non come puro esercizio virtuosistico, quanto al servizio di una desolazione umana, vastissima, ricchissima e scandagliata in ogni sua forma (si vede ogni genere di bassezza corporale che, però, invece di disgustare, sbalordisce e atterrisce per la dimensione artistica del contesto in cui si viene a trovare).
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Il premio postumo assegnato a Aleksei German e l'anteprima mondiale di Hard to be a God qui al festival di Roma consentono di dare il giusto rilievo a un cineasta con cui non si possono non fare i conti per una ridefinizione della storia e del pensiero cinematografico. E, finalmente, il tanto bistrattato festival romano può vantare un'esclusiva che verrà ricordata per la sua notevole importanza.
Movieplayer.it
5.0/5