Dopo sei tour tra Iraq ed Afghanistan come pilota di F-16, il maggiore dell'aereonautica USA Tom Eagan (Ethan Hawke) è ora un pilota di droni presso una base nei dintorni di Las Vegas. Pur potendo tornare tutte le sere a casa dai figli e dalla splendida e affettuosa moglie (January Jones), Tommy in realtà non è felice di combattere questa guerra a distanza, lontano dall'azione vera e propria e quindi dal pericolo, ma anzi sta vivendo un periodo di grande difficoltà e alienazione.
Questo perché Tommy è un pilota vero (il suo look ricorda non poco quello di Tom Cruise in Top Gun) e sente innanzitutto la necessità di tornare a fare ciò che ama forse più di ogni cosa, volare. E in più c'è il senso di colpa: quello che riguarda le terribili morti, che spesso coinvolgono anche civili, che ogni giorno causa, dall'alto, seguendo gli ordini dei superiori, ma anche il senso di colpa di essere letale ma invisibile ai nemici ("il rischio più grande che corro è quando faccio l'autostrada in macchina per venire al lavoro"), e quindi un "codardo".
La guerra dei droni
In questo Good Kill il regista e sceneggiatore Andrew Niccol, qui alla terza collaborazione con il protagonista Hawke, vuole mostrare il nuovo e tanto discusso, nonché attualissimo, modo di fare la guerra e mostrarci le conseguenze che questo cambiamento può avere sui suoi soldati. Lo fa con lunghe sequenze che ricorda in tutto e per tutto gli schermi dei computer realmente utilizzati per controllare questi droni, e attraverso cui assistiamo all'uccisione, fredda e silenziosa, di questi nemici che in realtà tutto sembrano tranne che tali.
Il peggio arriva con l'arrivo della CIA che, autorizzata dal governo Obama, arriva ad utilizzare Tom e la sue abilità per del lavoro ancora più sporco, ovvero l'eliminazione preventiva di personaggi apparentemente legati ad Al Queda, anche in luoghi pubblici o in presenza di donne e bambini. E' a quel punto che Tommy, anche spinto dalle proteste e i rimorsi di una copilota appena arruolata (la magnetica Zoë Kravitz), incomincia a perdere la sua usuale freddezza e sembra essere risucchiato in un vortice autodistruttivo, tanto a casa che al lavoro, sotto il peso delle responsabilità.
Call of Duty
Niccol gira con uno stile asciutto, asettico e non troppo coinvolgente da un punto di vista emotivo: all'inizio del film, il Colonnello interpretato da Bruce Greenwood tiene un interessante discorso alle nuove reclute per far capire loro l'importanza di quello che fanno e per sottolineare che, benché molti dei nuovi arruolati siano stati presi proprio nei centri commerciali per la loro bravura con i videogiochi, quelli che faranno esplodere non sono dei semplici pixel ma vite umane.
Niccol però forse non si rende conto che lo stesso discorso, a maggior ragione, dovrebbe valere anche per il suo film, e che mostrare il tutto sempre e solo dal punto di vista di questi soldati, chiusi dentro squallidi container in mezzo al deserto e lontani 7000 km dalle esplosioni, non regala agli spettatori lo stesso tipo di coinvolgimento che può dare un film di guerra più tradizionale. Ed è forse anche per questo che nel finale, quando Niccol eccede in retorica ed il suo script viaggia su binari fin troppo prevedibili e conosciuti, la sensazione è di aver assistito ad un film dall'argomento certamente interessante, ma che probabilmente aveva molto meno da dire di quanto poteva inizialmente pensare il suo autore.
Conclusione
Da sempre Niccol, più che un bravo regista, è un ottimo soggettista e anche in questo caso l'idea di partenza è particolarmente interessante. Peccato che la realizzazione non sia altrettanto soddisfacente, e che manchi il coraggio di portare fino in fondo un discorso politico o etico più approfondito o graffiante. Quello che rimane è quindi il buono lavoro sul personaggio di Ethan Hawke, qui probabilmente alla sua più riuscita e convincente interpretazione (al di fuori della Before Trilogy di Linklater ovviamente) da molto tempo a questa parte.
Movieplayer.it
3.0/5