Recensione Beyond the Hill (2011)

Premiato allo scorso Festival di Berlino, l'esordio del regista turco Emin Alper è una sorta di apologo antirazzista e antimilitarista, realizzato però in maniera del tutto spiazzante e singolare, ricorrendo a uno stile che mescola svariate coordinate di genere, secondo un gusto particolare per l'ellissi, il sottinteso, la metafora.

E Zafer prese il fucile

L'ellissi è decisamente la figura retorica dominante di Beyond the Hill (Tepenin Ardi), sorprendente esordio del regista turco Emin Alper, sorta di "operetta morale" che si dipana secondo un elaborato gioco di sottintesi, di ambiguità e di allusioni, fino al punto da confondere e sovrapporre continuamente il piano della realtà con quella dell'allucinazione. Presentato allo scorso Festival di Berlino nella sezione Forum, dove è stato premiato con il Caligari Film Prize e con una menzione speciale per la Miglior opera prima, il film di Alper è una sorta di apologo antirazzista e antimilitarista, realizzato però in maniera del tutto spiazzante e singolare. Il regista, infatti, mescola svariate coordinate di genere, passando senza soluzione di continuità da un'impostazione più autoriale a una che segue gli stilemi tipici del thriller e del giallo, perfino con alcuni accenni horror. Una pluralità d'approcci che risponde probabilmente all'intenzione dell'autore di farsi portatore di molteplici istanze: da una parte l'esigenza cronachistica di documentare la quotidianità della vita contadina degli stati sociali più umili; dall'altra la volontà di denunciare alcune caratteristiche politiche e culturali del suo popolo, filtrate comunque attraverso gli strumenti della metafora e dell'allegoria.


L'intreccio - in verità dalla struttura alquanto laconica e sfilacciata - verte attorno a una famiglia di contadini e pastori guidata dal vecchio Faik, ex guardia forestale in aperta ostilità nei confronti di una comunità di nomadi, a suo dire responsabile di numerose razzie del suo gregge. La situazione degenera quando giungono in visita dal patriarca il figlio Nurset, intellettuale e poeta, e i nipoti Zafer, reduce di guerra con problemi psichici e Caner, ragazzo affascinato dal fucile del nonno. Faik offre loro da mangiare una capra da lui rubata ai nomadi come sorta di risarcimento nei confronti dei loro (supposti) saccheggi. Il giorno seguente, tuttavia, Nurset viene ferito alla gamba da un individuo che non riesce a identificare. Gli altri membri della famiglia sono convinti che si tratti di una vendetta da parte degli zingari, ma nel frattempo Zafer, sempre più in preda alle visioni, inizia a parlare con un plotone di soldati che esiste solo nella sua mente...

Beyond the Hill si concentra tutto nello spazio di confine dichiarato fin dal titolo, appunto quell'oltre la collina dove vivono i nomadi, una sorta di territorio liminare che circoscrive ciò che è "altro da sé" e che, dunque, proprio in quanto diverso, è inevitabilmente ostile. Un sedicente "nemico" che è minaccioso quanto più è invisibile, quasi una specie di proiezione mentale in cui si sostanzia tutto il razzismo e la xenofobia dei protagonisti. Alper affronta temi universali - come il rapporto inestricabile tra cultura e natura, l'irriducibile differenza tra il sé e l'altro, e la connaturata violenza insita nell'uomo - ma, attraverso alcune allusioni simboliche, firma anche un vero e proprio pamphlet (venato, soprattutto sul finale, da toni satirici e grotteschi) contro le degenerazioni della politica militarista e l'atteggiamento reazionario della società turca. Il tutto attraverso uno sguardo innovativo, che sopperisce alle limitazioni di budget con l'originalità delle soluzioni stilistiche e con interpreti intensi e autentici (in particolare l'allucinato Berk Hakman nel ruolo di Zafer).