Dopo la rivoluzione
Il giudizio può sembrare azzardato, ma forse certi documentari sul cinema dovrebbero ambire all'essenzialità di Bertolucci on Bertolucci, il lavoro curato da Luca Guadagnino e Walter Fasano, presentato nella sezione Venezia Classici alla 70.ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica. Il film non è altro che un montaggio di interviste che il regista di Parma, quest'anno presidente della giuria, ha rilasciato nella sua carriera ultra decennale. Nessuna colonna sonora, nessuna rivelazione maliziosa di amici e collaboratori, ma solo un unico protagonista, il regista, che parla in prima persona di sé stesso e della sua arte.
E' durato oltre due anni il progetto dei due autori che hanno esaminato oltre trecento ore di materiale da archivi di tutto il mondo, firmando un film-saggio di grande coesione; il risultato è una lunga confessione a cuore aperto, una sorta di flusso di coscienza in cui il cineasta tocca senza pudore gli argomenti più disparati e anche se durante gli anni certe idee si sono leggermente modificate e l'estremismo giovanile è sfumato in una visione del mondo meno furiosa, il discorso resta estremamente coerente. E' un intellettuale affascinante, Bernardo Bertolucci, che sa usare le parole e che ammalia il pubblico quando parla del lavoro di regista, anzi di "metteur en scène" (il francese è la lingua del cinema), e dei temi cardine della sua poetica. Del rapporto col padre ad esempio, il grande poeta Attilio, e più in generale della relazione con i padri, "uccisi tante volte nei film, senza mai finire in prigione". Come non pensare alla psicanalisi e al fantasma di Sigmund Freud, che Bertolucci definisce "la terza lente", il tramite che lo ha portato a strutturare i film dando importanza all'inconscio, quella strana presenza che sa farsi sentire con precisione millimetrica nei momenti più strani; quando si sta per finire una pellicola ad esempio, e il racconto di come si sia ferito all'occhio destro nelle fase conclusiva delle riprese di Novecento (con paralisi del nervo ottico e bernoccolo in testa per non aver visto una porta a vetri) ne è una dimostrazione lampante. E gli attori, questi straordinari arnesi che sfrutta fino quasi a distruggerli ("Capisco gli attacchi di Maria Schneider, voleva solo essere una diva, e Marlon Brando non mi ha parlato per molto tempo", racconta in due interviste differenti, riferendosi a Ultimo tango a Parigi) Bello il racconto dell'incontro con Pier Paolo Pasolini, scambiato dal tredicenne Bernardo per "un ladro che cerca di rubare nelle case la domenica pomeriggio, vestito a festa come un operaio che va a sposarsi"; sarebbe diventato poi uno dei suoi punti di riferimento, difeso a spada tratta quando la censura si abbatteva su di lui. Ai colleghi italiani Bertolucci rimprovera proprio di non saper fare gruppo, di badare al proprio orticello, senza interagire, a quelli stranieri di essere sterilmente "estremisti", come dimostra l'aneddoto sulla lite con Jean-Luc Godard, deluso dall'evoluzione commerciale del suo cinema. "So che ve la prenderete con me, ma i miei film preferiti sono quelli di maggior successo", dice il regista, felice di tenere in mano due dei nove Oscar conquistati nel 1988 per L'ultimo imperatore. Il poeta, l'autore europeo che rifiuta strenuamente il meccanismo degli studios, l'uomo i cui modelli artistici si chiamano Jean Renoir, Federico Fellini ("Con La dolce vita ha inventato qualcosa che non c'era") e Roberto Rossellini, l'unico artista, a parer suo, ad aver mostrato "non le cose, ma l'idea delle cose", ama anche piacere al pubblico e non si preoccupa di voler fare le cose in grande o di utilizzare i soldi degli americani per avere la più grande bandiera rossa mai vista al cinema. Dal montaggio di Fasano e Guadagnino non emergono certo particolari nuovi legati alla figura di Bertolucci, ma si percepisce chiaramente come negli anni sia cambiata la sua idea di cinema, considerato prima come una sorta di prosecuzione del "lavoro" di poeta e diventato poi arte partecipata. "Il cinema mi serve per non impazzire, per mettere ordine nel caos", racconta in un'intervista concessa per promuovere Prima della rivoluzione. Rivoluzione, altro termine chiave per leggere Bertolucci on Bertolucci, sinonimo di sogno che avrebbe potuto concretizzarsi in ogni momento. "Nel '68 andavamo a dormire certi che ci saremmo svegliati in un mondo diverso", spiega; utopia, quindi, ma anche concretezza contadina, quella che gli è stata inoculata dalla materna Emilia, perché essere di sinistra per Bertolucci significa attaccarsi alla "vitalità del proletariato" e farla propria. Pur senza un preciso ordine cronologico (le interviste vanno avanti e indietro nel tempo), il documentario aiuta la comprensione dello spettatore scandendo la filmografia del regista e dedica l'ultimo capitolo al ritorno sul set, dopo una lunga pausa dovuta ai postumi di un'operazione alla colonna vertebrale, che lo costringe a stare sulla sedia a rotelle. "So come si gira un film, non dovevo esserne spaventato", racconta parlando di Io e te, presentato un anno fa al Festival di Cannes. E' emozionante sentir parlare di cinema così, lasciarsi trasportare dalle parole di questo prim'attore speciale, criticarlo furiosamente quando ciò che si ascolta stona con una propria immagine del mondo, ma il bello è proprio questo, che nel momento esatto in cui si assiste ad un film come Bertolucci on Bertolucci, si ha la sensazione di poter colmare quella distanza che ci separa da lui. E' solo una sensazione, ma per chi ama Bertolucci è un'occasione da non perdere.Movieplayer.it
3.0/5