Recensione Aspettando il mare (2012)

Aspettando il mare, film d'apertura della settima edizione del Festival di Roma, è il racconto di un viaggio in un mondo (e all'interno di un uomo) desertificato; ma l'utopia del ritorno e del riscatto fornisce senso al film e all'impresa del protagonista.

Il sogno del viaggio

In un remoto villaggio di pescatori dell'Asia centrale, il mare è scomparso. Il capitano Marat, ancora memore del terribile giorno in cui, anni prima, un cataclisma ambientale annientò la sua nave, il suo equipaggio e sua moglie, porta con sé il rimorso di non aver saputo proteggere questi ultimi. Il suo villaggio, da lui abbandonato dopo la tragedia, ora lo odia: quasi che il misterioso prosciugamento del mare, oltre al naufragio della nave, fosse una sua responsabilità. Eppure, Marat è deciso a tornare nella piccola comunità e ad affrontare i fantasmi del passato: irrazionalmente convinto che sua moglie non sia morta, e che il mare, così come è sparito anni prima, possa tornare. Così il capitano, incurante dell'ostilità e dello scherno dei suoi concittadini, trova il relitto della sua nave in mezzo a quel deserto che un tempo era il fondo delle acque marine; l'uomo inizia a muoverlo con grande sforzo nella sabbia, convinto di giungere prima o poi al mare. Solo il vecchio amico Balthasar, ora responsabile dell'aeroporto locale, e Tamara, sorella minore di sua moglie. da sempre innamorata di lui, sembrano non considerarlo pazzo. Ma Marat rifiuterà volutamente ogni compagno di viaggio, convinto di dover ritrovare il mare, e la donna che ama, con le sue sole forze.

Il film di apertura, presentato fuori concorso, della settima edizione del Festival di Roma è un vero e proprio kolossal (la sua lavorazione ha richiesto complessivamente sei anni) proveniente da una cinematografia poco considerata dalla nostra distribuzione. Eppure, questo Aspettando il mare del regista tajiko Bakhtyar Khudojnazarov è una pellicola considerata mainstream in patria, dall'alto budget e con nomi di richiamo per il pubblico locale (a cominciare dal protagonista Egor Beroev) a comporre il cast. Segno, questo, di una differenza di gusto, e di concezione del cinema, abbastanza evidente rispetto a noi; ma quello di Khudojnazarov è in realtà un nome già abbastanza noto ai cinefili, specie per aver diretto nel 1999 il fortunato Luna Papa. Proprio con quest'ultimo, e con una prossima pellicola su cui il regista non ha voluto fornire dettagli, il film compone una sorta di trilogia, con l'Asia centrale a fare da filo conduttore. Ma Aspettando il mare, come si può facilmente intuire dalla trama, non è uno spaccato realistico su un villaggio sito ai confini del mondo, e non ha velleità di denuncia o di semplice resoconto antropologico; piuttosto, il film di Khudojnazarov è l'odissea (dai forti tratti allegorici) di un uomo da tutti creduto pazzo, che caparbiamente continua a insegure un sogno e rischia anche di vederselo coronato.
Il regista, in conferenza stampa, ha citato come referente del suo cinema il "realismo magico" del grande scrittore Gabriel Garcia Marquez: paragone certo azzardato, considerata la grandezza, nel suo campo, del modello, ma a nostro avviso non certo campato in aria. La descrizione di una piccola comunità, piena di individui credibili e umani quanto narrativamente sopra le righe, ha più di un punto in comune con le migliori pagine dello scrittore colombiano, con quel tono che coniuga disinvoltamente descrizione naturalistica ed elementi fantastici, questi ultimi perfettamente integrati nel tessuto della trama. Lo spunto iniziale del film, infatti, pur se ispirato a un reale disastro ambientale (il prosciugamento del Lago d'Aral, in Asia centrale) funge in realtà da allegoria per un discorso più generale sull'essere umano: una riflessione amara ma non priva di speranza sul passato, sui rimpianti e sui sensi di colpa personali, sui fantasmi che tormentano uomini e comunità, e sulla necessità di avere un obiettivo, per quanto utopico, che fornisca lo stimolo per ricominciare. La folle impresa di Marat, il suo muovere la nave tra le enormi distese di sabbia che lo circondano, è emblema di un ottimismo irrazionale quanto necessario, unico antidoto a una solitudine che è già divenuta parte integrante della vita del protagonista.
Il senso di grandezza trasmesso dalle scenografie, la resa quasi agorafobica di un paesaggio che, in un tempo diverso, era il liminale spazio che segnava il viaggio e un intero universo di possibilità, è il segno di una visione estetica coerente e pregnante da parte del regista. Il tono, tuttavia, è volutamente asciugato da ogni senso di epicità, pervaso al contrario di quotidianità e sottile malinconia, con la caparbia determinazione del protagonista a fungere da elemento portante di tutta la narrazione. C'è anche un umorismo surreale, dolcemente stralunato come il personaggio di Marat, a fare da sottofondo alla storia: ma il messaggio che il regista vuole espimere è sostanzialmente positivo, nonostante il suggerimento (che ha il senso dell'ineluttabilità) che il perseguimento dei propri sogni porti spesso emarginazione e solitudine. Ma Marat, e la sua nave, continuano malgrado tutto a guadagnare metro dopo metro di deserto: e, nel finale, restano pochi dubbi sul fatto che, quel viaggio, sia davvero valsa la pena di farlo.

Movieplayer.it

3.0/5