Amore e tragedia a ritmo di bluegrass
Il potere salvifico della musica, veicolo privilegiato delle emozioni più intense e più intime, contrapposto alla durezza di una tragedia di proporzioni indicibili, in grado di dilaniare la serena esistenza di una coppia di innamorati. È il conflitto al cuore della storia raccontata nel film The Broken Circle Breakdwon, distribuito in Italia con il titolo Alabama Monroe - Una storia d'amore, sceneggiato e diretto dal regista fiammingo Felix Van Groeningen sulla base di un testo teatrale firmato da Mieke Dobbels e da Johan Heldenbergh, quest'ultimo anche interprete del film nel ruolo del musicista Didier Bontinck.
Presentato al Festival di Berlino 2013 nella sezione "Panorama" e accolto da un clamoroso successo di pubblico in Belgio (400.000 spettatori), Alabama Monroe si è ritrovato in lizza alla scorsa edizione degli European Film Award, dove ha ricevuto il premio per la miglior attrice per la protagonista Veerle Baetens, ed è arrivato perfino ad aggiudicarsi la candidatura all'Oscar come miglior film straniero.
La passione e la malattia
A livello narrativo, l'approccio adottato dal regista Van Groeningen può riportare alla mente quello utilizzato anche dall'americano Derek Cianfrance nel recente Blue Valentine: una frammentazione temporale che annulla l'ordine cronologico degli eventi per scorrere avanti e indietro fra passato e presente, senza soluzione di continuità, ma seguendo piuttosto l'onda delle emozioni indirizzate di volta in volta verso il pubblico mediante le vicende vissute dai due protagonisti. Lui, Didier Bontinck, musicista barbuto con look alla Kris Kristofferson, che si esibisce nei locali della città di Ghent insieme al suo gruppo bluegrass (un sotto-genere della musica country basato sull'utilizzo esclusivo di strumenti a corda); lei, Elise Vandevelde, giovane donna che rimane subito affascinata dall'universo musicale di Didier e decide di unirsi al gruppo in virtù delle proprie doti canore, mentre intraprende con Didier una relazione appassionata dalla quale, "fuori programma", nascerà presto una bambina, Maybelle. Un quadretto idilliaco, inserito nella cornice di un'accogliente casa di campagna con tanto di veranda; se non fosse che, come ci viene mostrato fin dalle prime sequenze, la piccola Maybelle viene colpita da un cancro mostruosamente feroce. Per i due amorevoli genitori, è l'inizio di un calvario nel tentativo di conferire un senso ad una prova così incomprensibilmente crudele.
La guerra è dichiarata
Una vicenda analoga, per certi aspetti, la ricordiamo in una pellicola francese di appena due anni fa: il bellissimo La guerra è dichiarata di Valérie Donzelli (snobbato invece dall'Academy), in cui il confronto con la malattia di un figlio - forse ancora più impressionante, considerata l'ispirazione autobiografica della storia - trovava un solido contrappunto nel legame che univa i due tormentati genitori ("Perché è capitato a noi?"; "Perché noi ce la possiamo fare", recitavano i due protagonisti nel più significativo scambio di dialoghi del film). Alabama Monroe, al contrario, va in una direzione esattamente opposta: prende una materia narrativa già di per sé 'incandescente', quella appunto del cancer-movie, e porta il dramma ad un'esasperazione quasi parossistica, attraverso un accumulo di "scene madri" ed un'espressione costantemente 'urlata' della sofferenza. È vero, a stemperare lo struggimento di Didier ed Elise intervengono puntualmente le canzoni bluegrass del loro gruppo, la Broken Circle Breakdown Band, pronta ad offrire un "corredo musicale" ai sentimenti dei due genitori. Ma quando poi sarebbe opportuno 'rallentare', lavorare per sottrazione, Van Groeningen preme il pedale sul pathos ricercato a tutti i costi, con modalità e maniere peraltro già viste e sperimentate più volte fra cinema e TV.
La cognizione del dolore
Ad Alabama Monroe, pertanto, viene a mancare quell'elemento di cui avrebbe avuto più bisogno trattando argomenti così 'estremi': il rigore di chi non si limita a portare il dolore in primissimo piano, al fine di ottenere la commozione dello spettatore, ma riesce a raccontarlo anche assumendo uno sguardo più lucido e realistico, e proprio per questo con maggiore profondità e con un impatto emotivo più duraturo: basti pensare a La stanza del figlio di Nanni Moretti, o ancora di più alla radicale essenzialità di un capolavoro quale Amour di Michael Haneke nell'accostarsi ai temi della malattia e della prospettiva della morte. Al film di Van Groeningen, purtroppo, tutto ciò viene a mancare, mentre la necessità di uno sfogo sfocia, da parte di Didier, in un'invettiva furibonda contro i fanatismi di matrice religiosa, contro i creazionisti, contro l'idea stessa di Dio (con un'appendice, soltanto accennata e priva di adeguato sviluppo, riguardante il dibattito sulle cellule staminali e la posizione fortemente conservatrice di George W. Bush), e dall'altro lato, quello di Elise, in un annichilente vortice autodistruttivo.
Movieplayer.it
2.5/5