Recensione 2 giorni a New York (2012)

Cinque anni dopo, Julie Delpy decide di dare un seguito alla sua fortunata commedia del 2007: la regista, coraggiosamente, sostituisce il protagonista maschile, oltre a spostare l'ambientazione da Parigi a New York. Il risultato è ancora gradevole e divertente, ma non manca un fondo di amarezza.

New York mon amour

Che Julie Delpy decidesse di dare un sequel al suo 2 giorni a Parigi, commedia romantica gradevole e sui generis che segnò, nel 2007, la sua seconda regia, era in fondo prevedibile. Al di là del buon successo ottenuto dal prototipo, il personaggio dell'eccentrica (ma irresistibile) Marion si prestava ad essere sviscerato ulteriormente in nuove storie. Ciò che invece non era ipotizzabile, e rappresenta senz'altro motivo di coraggio per l'attrice/regista, è la scelta del soggetto per questo secondo episodio: via Adam Goldberg e il suo personaggio, storia finita malgrado l'happy ending del film precedente, dentro un mattatore naturale come Chris Rock (qui, comunque, decisamente più misurato del solito) a vestire i panni di Mingus, nuovo compagno dell'apparentemente pacificata Marion. Confermati, invece, gli strampalati familiari della protagonista, il padre Jeannot interpretato dal vero genitore della regista, Albert Delpy, la sorella Rose col volto di Alexia Landeau, il rozzo e vanesio Manu, ex boyfriend (e attuale compagno di Rose) con le fattezze di Alexandre Nahon. Ad ammiccare ai fans del film precedente, anche lo sghembo personaggio della "Fata" col volto di Daniel Brühl, eco-terrorista sempre pronto a fornire buoni consigli. Squadra che vince si cambia, quindi: almeno, in uno dei due ruoli chiave. Il motivo dichiarato: evitare l'effetto Prima dell'alba/Prima del tramonto (il successivo Before Midnight, all'epoca delle riprese, era ancora di là da venire).


Famiglia estesa, reazioni... nucleari Trigger della vicenda, e di tutti i suoi tragicomici risvolti, è la visita del vecchio Jeannot a casa della coppia nella Grande Mela, seguito dalla figlia Rose e dalla presenza, non annunciata, dello sgradevole Manu. Le frizioni tra l'anziano uomo, da poco rimasto vedovo, e il tranquillo Mingus, speaker radiofonico e ammiratore del presidente statunitense Barack Obama, si faranno subito sentire; ancor più, quelle tra Mingus e Manu, nonché tra le due sorelle, a cui basteranno poche ore di vicinanza per risvegliare vecchi attriti. Il precario equilibrio della nuova compagnia finirà per coinvolgere anche i piccoli Lulu e Willow, figli avuti rispettivamente da Marion e Mingus nelle precedenti relazioni; nonché il lavoro della stessa Marion, i cui soggetti fotografici sono stati appena esposti in una galleria locale. L'equilibrio apparentemente raggiunto dalla donna, dopo le disastrose manifestazioni emotive del film precedente, si farà sempre più fragile; sotto i colpi incrociati dell'insofferenza di Mingus agli "estranei", della malcelata invidia di Rose per la sua apparente stabilità sentimentale, della superficialità ottusa di Manu, di una convivenza che sembra sempre più mettere a nudo i limiti (prima nascosti) della sua relazione.
La prima caratteristica che differenzia questo 2 giorni a New York dal suo predecessore è, in effetti, proprio il suo carattere maggiormente "corale": laddove il film del 2007 poneva in primo piano la relazione tra i due protagonisti, minacciata dall'invadenza di parenti ed ex di Marion, qui è un particolare concetto di "famiglia estesa" (e multietnica) a essere sotto la lente di ingrandimento della regista, e a farsi pericolo per la stabilità sentimentale della coppia.

Tra le fiabe e il Faust 2 giorni a New York si apre e si chiude con un "c'era una volta", con due fiabe raccontate da Marion a un personaggio bambino attraverso il teatro delle marionette. Tuttavia, come avverte la stessa protagonista in una significativa scena, "Nelle favole si dice che 'vissero felici e contenti', ma non si dice il resto della storia per una buona ragione: finiti i draghi da stendere, dopo un finale felice, inizia la vita, che è più dura da gestire di qualsiasi drago". Le risate, sempre presenti e profuse con generosità, coprono un sottofondo amaro, quello di un personaggio che non ha ancora fatto i conti con le proprie insicurezze; finendo per nasconderle sotto un'altra relazione che, come la precedente, prescinde dalla conoscenza reale del partner. La mancanza di comunicazione verrà messa a nudo proprio dal clima surriscaldato e destabilizzante portato dai nuovi ospiti; Marion rischierà di perdere non solo Mingus, ma anche sé stessa, dopo aver simbolicamente venduto la sua anima (come un Faust contemporaneo) durante l'esibizione delle sue opere. Non è casuale il suo disperato tentativo di rientrare in possesso di quanto ceduto ad un carismatico Vincent Gallo che qui veste i panni di sé stesso: se è lecito "vendere" qualcosa allo scopo di dimostrarne l'inesistenza, è altrettanto lecito dubitare di quanto si è fatto, quando quella inesistente "merce" sembra essere l'unico legame con un'identità perduta.
Malgrado ciò, un equilibrio (pur sempre precario) si rivelerà infine alla portata della nuova Marion e di Mingus (reduce, quest'ultimo, da un irresistibile dialogo-monologo con la sagoma sorridente di Obama, posta come un totem nel suo studio). Uno sguardo più leggero sulle cose, e la condivisione dell'effimero, sembra essere la banale ma efficace soluzione. Chi ha voluto, presuntuosamente, acquistare l'anima di un'altra persona, finirà per pagarne simpaticamente il contrappasso.

Risate e paesaggi urbani
Non bisogna comune farsi, erroneamente, l'idea che questo 2 giorni a New York sia un prodotto malinconico, o addirittura cupo. Si ride ancora, e molto, nonostante il tono forse meno spensierato e lieve del predecessore; il carattere maggiormente corale del film consente alla regista di sfruttare le linee di tensione createsi tra i personaggi, per dar vita a sequenze spesso irresistibili (tra queste, una furiosa lite tra le due sorelle in un locale, dagli esiti disastrosi per il povero Mingus, e un esilarante dialogo tra la protagonista e un presuntuoso critico d'arte). La Delpy riesce, soprattutto, a tenere ottimamente a bada il carattere istrionico di Chris Rock, e la tendenza dello stesso personaggio di Marion ad andare sopra le righe; lasciando libero sfogo all'estro (sempre un po' sboccato) di sé stessa e del compagno solo laddove lo script lo richiede.
Va inoltre sottolineata l'impostazione visiva, ancora una volta, estremamente accattivante del tutto, con sequenze fotografiche che vanno a volte a spezzare la continuità delle immagini: come nel divertente flashback che mostra la vita del vecchio Jeannot, in una breve e serrata serie di scatti, o la gita per le vie di New York, col paesaggio cittadino ripreso e immortalato da una macchina fotografica che qui sembra, per la regista, quasi un ulteriore "occhio" con cui rendere la sua visione della realtà urbana.

Movieplayer.it

3.0/5