L'avventura del Ravenna Nightmare 2008 si è conclusa nella maniera ideale per una rassegna dedicata al cinema horror, e cioè celebrando il più spaventoso bagno di sangue che abbia avuto luogo, nel periodo del festival (27 ottobre - 1 novembre), sugli schermi del CinemaCity. Il riferimento è ovviamente a Frontiers di Xavier Gens, praticamente la risposta europea a Non aprite quella porta di Tobe Hooper, arricchita di velenosi riferimenti alla vittoria elettorale di Sarkozy in Francia e al pericoloso incremento di tendenze fascistoidi nel Vecchio Continente.
La scioccante pellicola del regista francese, l'unica tra l'altro con la sicurezza di essere immediatamente distribuita nelle nostre sale, è stata premiata come miglior lungometraggio del concorso internazionale da una giuria estremamente qualificata, presieduta per l'occasione dal maestro Ruggero Deodato. Accanto a lui altre due figure di rilievo: il regista britannico Simon Rumley, che il pubblico ravennate aveva molto amato per The Living and the Dead, presentato al festival l'anno prima, ed il giovane produttore romano Marco Morabito, che ha proprio ora in cantiere un paio di progetti decisamente interessanti. Uno è la trasposizione del discusso libro di Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, l'altro è l'attesissimo remake di Suspiria affidato ad uno dei talenti più promettenti e audaci del cinema americano, David Gordon Green.
Dall'esterno, tuttavia, si è avuta l'impressione che la scelta di Frontiers non sia stata così facile e soprattutto condivisa, complice il fatto che il concorso quest'anno offriva parecchi titoli validi e una discreta varietà di approcci al cinema di genere. Ulteriore indizio di questa fondamentale indecisione è l'entusiasmo con cui sono state annunciate le due menzioni speciali, attribuite a film che avevano riscosso notevole gradimento anche da parte del pubblico. Già, proprio quel pubblico che ha rappresentato una delle note più liete di questa edizione del festival; tutte le sere la sala era piena, con qualche spettatore costretto addirittura ad accomodarsi sulle scalette, mentre anche di pomeriggio si è registrata una discreta affluenza, almeno per i film del concorso programmati nel weekend.
Tornando alle menzioni speciali, non ci sorprende affatto che entrambe siano andate a produzioni britanniche, considerando quanto tale cinematografia si sia messa in luce nelle giornate del festival. In particolare Eden Lake di James Watkins si è rivelato un film da seguire col fiato sospeso: thriller adrenalinico incentrato sulle peripezie di una coppia borghese, partita per una tranquilla vacanza al lago e subito presa di mira da una gang di ragazzini incredibilmente spietata, ha mostrato al pubblico come si possa coniugare una morale cinica alla Funny Games con echi della rivisitazione quasi altrettanto feroce e disincantata del genere che Peckinpah operò, qualche lustro prima, nel memorabile Cane di paglia.
Qualche accenno alle terribili gang giovanili attive in Inghilterra vi è anche nell'altro film menzionato, il suggestivo The Disappeared, tentativo curioso e discretamente risolto di mescolare gli stilemi della ghost story di stampo britannico coi frammenti di un quadro sociale alla deriva. In questa storia di ragazzini rapiti e uccisi in circostanze misteriose, il punto di vista dell'adolescente protagonista è descritto con tocco sofferto, autentico, quasi come se le atmosfere del capolavoro di Amenabar, The Others, andassero a depositarsi sul lato più oscuro delle opere di Mike Leigh e Ken Loach.
C'è da dire che a parte il trascurabilissimo Donkey Punch di Olly Blackburn (siamo sinceri, le storie di giovani sessualmente iperattivi e dotati di quoziente intellettivo minimo che si avventurano in mare aperto su uno yacht, andando incontro a una fine idiota quanto loro, giungono ormai fuori tempo massimo), anche gli altri film realizzati sotto l'egida dell'Union Jack hanno messo in mostra qualche spunto degno di nota.
Si va dal furbetto ma efficacissimo Hush di Marc Tonderai, thriller ambientato di notte in autostrada che a livello di scrittura non risparmia alcun colpo basso, risultando comunque teso e avvincente fino alla fine; per arrivare poi al divertente The Cottage, con l'iniziale rapimento della figlia di un boss rimodellato ironicamente su esperienze filmiche di timbro pulp, un po' alla maniera di Guy Ritchie se si cercasse qualche accostamento plausibile, ed una parte finale che cita anch'essa, ma in modo quanto mai grottesco, gli archetipi più forti presenti in Non aprite quella porta e nei suoi derivati. Il film, che omaggia più generi contemporaneamente, risulterebbe magari più deboluccio se non avesse interpreti così convincenti e spassosi, a conferma di quella tradizione attorica inglese sempre vitale e brillante.
Ecco, l'esempio di The Cottage ci offre lo spunto per sottolineare una caratteristica delle scelte operate dai selezionatori, che ci trova senz'altro favorevoli: l'allargamento e la contaminazione dei generi. Contrariamente al punto di vista di chi identifica nell'horror solamente la componente splatter (che pure è presente in molti dei lavori visti durante la settimana del festival), il Ravenna Nightmare propone un'indagine sui generi di riferimento che spazia a 360 gradi, attraverso pellicole che privilegiano di volta in volta il mistero, il blood & gore, l'orrore dai contorni metafisici, quello contestualizzato nella realtà, le derive parodiche e ogni altra possibile ramificazione. Un titolo altrettanto esemplificativo di tale orientamento, corrispondente peraltro ad una delle sorprese più belle di quest'anno, è Sauna del finlandese Antti-Jussi Annila. Il giovane finlandese, che nel precedente Jade Warrior aveva già tentato un esperimento notevole innestando scene d'azione mutuate dal wuxiapian hongkongese su uno scenario ispirato al tradizionale poema epico scandinavo, il Kalevala, si è qui prodigato in una contaminazione non meno ardita. Sauna scava infatti nel passato della Finlandia, spostando l'azione sul finire del sedicesimo secolo e ambientando il film lungo il confine tra il suo paese e la Russia, nella paludosa regione della Carelia, così da collocare una storia di maledizioni e vendette soprannaturali vagamente ispirata ai maestri dell'horror orientale (in particolare il Nakata Hideo di Ringu e Dark Water) in un contesto storico sostanzialmente inedito.
Accanto a scoperte più o meno esaltanti, non sono mancate certo le delusioni. Poco materiale interessante dall'America, per esempio, e a parte l'irriverenza commovente fino alle lacrime di Bad Biology, opera del redivivo Frank Henenlotter (quello di Basket Case) presentata però come evento speciale, il cinema stelle e strisce al concorso ha regalato poco o niente. Si è anzi distinto in negativo lo scontato thriller psicologico di Rob Schmidt (autore in passato dei meno disprezzabili Delitto + castigo a Suburbia e Wrong Turn), quell'Alphabet Killer che si limita a ripercorre, con passo stanco, i cliché del nutrito filone di film sugli omicidi seriali, orientato stavolta verso orizzonti soprannaturali.
Per fortuna che a risollevare le sorti delle serate meno ispirate giungevano puntualmente i cult movies della retrospettiva Animal Attack!, piccola rassegna curata dalla regista Silvana Zancolò che ci ha permesso di recuperare alcuni classici del brivido e del cinema di fantascienza, accomunati dall'avere per soggetto animali che all'improvviso diventano pericolosi e aggrediscono l'uomo, magari per qualche esperimento andato storto. Davvero una gioia poter rivedere in pellicola autentici gioiellini come Il bacio della pantera di Jacques Tourneur, Tarantula di Jack Arnold, ed il King Kong in bianco e nero diretto nel 1933 da Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack. Non poteva esserci chiusura migliore di questi titoli, per il nostro resoconto festivaliero trasformatosi strada facendo in un tuffo nella storia del cinema.