"Dove siete? Se esistete, ascoltateci almeno una volta! Vi annoiate talmente in cielo da divertirvi a guardare gli uomini morire come dei vermi? Mio Dio, è così divertente assistere alle tragedie degli esseri umani?" "Non bestemmiare contro Buddha e gli dei: sono loro che piangono, idiota! Per i delitti che gli uomini commettono per la loro stupidità, perché credono che la loro sopravvivenza dipenda dall'assassinio degli altri ripetuto all'infinito. Non piangere... il mondo è fatto così."
Quando comincia a lavorare alla stesura di Ran, verso la metà degli anni Settanta, Akira Kurosawa si trova a un fondamentale punto di svolta nella propria carriera e nella propria vita. Il riscatto ottenuto grazie a Derzu Uzala, produzione sovietica del 1975, ricompensata con l'Oscar come miglior film straniero, aveva permesso infatti al cineasta nipponico di risollevarsi dal baratro in cui era precipitato all'inizio del decennio, tra cocenti delusioni professionali (la tiepida accoglienza per il dramma Dodes'ka-den) e un senso di fallimento che l'aveva spinto fin sull'orlo del suicidio. Difficile stabilire fino a qual punto il fatto di aver scrutato in maniera tanto diretta verso l'abisso possa aver influito sull'ispirazione del regista de I sette samurai; a ogni modo, ad attrarre l'attenzione di Kurosawa è la storia di un daimyo del sedicesimo secolo, Mori Motonari.

La sempiterna passione di Akira Kurosawa per il Giappone feudale lo induce infatti a tuffarsi in questa storia ammantata di leggenda, rivisitandola come un'amara parabola sulla corruzione morale e i lati oscuri del potere. È così che la figura realmente esistita di Mori Motonari, ridisegnata dalla fantasia del regista, finisce per fondersi con quella di uno degli antieroi più memorabili dell'opera di William Shakespeare: Re Lear. Da questo amalgama si sviluppa Ran, titolo polisemico il cui significato primario rimanda al concetto di caos: il caos sprigionato laddove il sistema feudale, istituzione che dovrebbe garantire l'ordine e l'armonia, viene travolto da una funesta implosione, sprigionando un'incontrollabile apocalisse di violenza, ancor più devastante di quella che si abbatteva sull'Inghilterra medievale nel Re Lear shakespeariano.
Da Kagemusha a Ran: il Giappone feudale raccontato da Kurosawa

Mentre Ran prende forma nella mente di Kurosawa, che dipinge degli stoyboard a colori per ogni scena del film, un altro progetto assume la priorità nel suo percorso lavorativo, grazie al supporto garantito dalla 20th Century Fox in virtù dell'intercessione di due fra i suoi più fervidi ammiratori, Francis Ford Coppola e George Lucas. L'opera in questione, Kagemusha - L'ombra del guerriero, altro dramma storico ambientato nel Giappone del periodo Sengoku (fra Quattrocento e Cinquecento), si attesta fra le vette assolute nella filmografia del regista, con un successo internazionale coronato dalla vittoria della Palma d'Oro al Festival di Cannes 1980. Un trionfo tale, quello di Kagemusha, da consentire a Kurosawa di assicurarsi i finanziamenti necessari per mettere finalmente in cantiere il film che l'aveva ossessionato per quasi un decennio, destinato a rivelarsi la più imponente delle sue imprese.

Al cinquantunenne Tatsuya Nakadai, già magnifico interprete di Kagemusha (ma prima ancora diretto da Kurosawa pure in titoli quali La sfida del samurai e Anatomia di un rapimento), viene affidato il ruolo di Hidetora Ichimonji, un signore della guerra deciso, come Re Lear, a suddividere i propri domini fra i suoi tre figli. Tuttavia lo scetticismo del minore dei tre, Saburo (Daisuke Ryu), tanto schietto riguardo la natura intrinsecamente malevola del potere quanto refrattario a concedere vane lusinghe, induce l'iracondo Hidetora a esiliare il ragazzo. Ma l'avventatezza e l'ingenuità di Re Lear, in Ran, assumono contorni ancora più cupi: alla radice degli intrighi e dei conflitti di cui è corredata la trama vi è in primo luogo la spietatezza di Hidetora, le cui brutalità hanno segnato il paese, contribuendo a instillare il germe della vendetta.
Il trono di sangue di Hidetora

Dunque nell'interpretazione di Tatsuya Nakadai Hidetora, con il volto contratto, lo sguardo sbarrato e la scarmigliata chioma bianca, assume contorni ancora più tragici: quelli di un sovrano che, al tramonto della propria vita, assiste sgomento al male a cui lui stesso ha dato origine, senza più essere in grado di controllarne gli effetti. Il tradimento del suo primogenito, Taro (Akira Terao), è una conseguenza diretta del feroce desiderio di rivalsa della moglie di quest'ultimo, Lady Kaede, dipinta da Mieko Harada come una sorta di impressionante di Lady Macbeth, disposta a tutto pur di reclamare un tributo di sangue per aver visto la propria famiglia annientata dal suocero. Accompagnato da una truppa di soldati e dal giullare di corte, Kyoami (Shinnosuke Ikehata), Hidetora si ritrova così privato di ogni autorità e braccato dall'esercito di Taro.

In questa angosciosa rappresentazione di un Regno e di un mondo che stanno andando in frantumi, Akira Kurosawa orchestra una delle più straordinarie sequenze belliche mai portate sul grande schermo: l'assedio al Terzo Castello, l'ultimo baluardo in cui Hidetora spera di ottenere rifugio dalla crudeltà dei primi due figli. Per cinque minuti, sotto un cielo ottenebrato da una fitta coltre di nubi, le truppe di Taro si lanciano in un furioso attacco, durante il quale non viene pronunciata una sola parola. Kurosawa rinuncia a ogni suono diegetico, lasciando scorrere le immagini della battaglia sulla maestosa colonna sonora di Toru Takemitsu: un'apoteosi di orrore messa in scena nei toni di un allucinato melodramma, fra inquadrature come tableau vivant di cadaveri trafitti da nugoli di frecce e stragi consumate in una manciata di terribili istanti.
L'umanità sull'orlo dell'abisso

È una scena dalla suggestione impareggiabile, capace di sintetizzare l'essenza stessa di Ran: il connubio fra l'iperrealismo della guerra, in cui il rosso dei vessilli si amalgama a quello delle fiamme e del sangue, e la dimensione quasi metafisica in cui viene trasportata la mente di Hidetora, in procinto di sprofondare in una follia senza ritorno. L'epica cavalleresca, tratto distintivo del cinema di Kurosawa fin dai tempi de I sette samurai, è qui riproposta in una grandiosità spaventosa, in cui il senso del sublime è inestricabilmente legato a una vertiginosa disperazione. Esiste uno spiraglio di luce, in Ran? Sembrerebbe di no, come constata amaramente il fedele consigliere Tango Hirayama (Masayuki Yui): "Guardali, questi stupidi esseri umani, che si battono per il dolore, si esaltano per la sofferenza e si compiacciono dell'assassinio!"

Distribuito l'1 giugno 1985 in Giappone e nei mesi successivi nel resto del mondo, Ran si meriterà un posto di rilievo non solo fra i capolavori di Akira Kurosawa, ma fra le più importanti opere cinematografiche di ogni tempo, con una canonizzazione pressoché immediata: Kurosawa si aggiudica la sua unica nomination all'Oscar come miglior regista, mentre il film riceverà il premio per i costumi di Emi Wada, che contribuiscono in misura determinante a quei contrasti cromatici su cui è imperniato l'impianto visivo della pellicola. Rilettura personalissima di Re Lear, ma al contempo racconto dal respiro universale, Ran ci restituisce il pessimismo cosmico già presente nella tragedia shakespeariana, ma con un'intensità ancora più struggente, fino a quell'ultima, emblematica immagine: la sagoma del cieco Tsurumaru (Mansai Nomura) sul ciglio di un precipizio, solitario superstite sospeso su un mondo in rovina.