Recensione Bread and Roses (2000)

Per il suo esordio americano, Ken Loach sceglie di rappresentare la dura realtà degli immigrati messicani negli USA; il suo sguardo è quello di sempre, spietatamente realistico e coerentemente, orgogliosamente militante.

Rabbia e speranza

Per il suo esordio americano, Ken Loach sceglie di rappresentare la dura realtà degli immigrati messicani negli USA. Lo sguardo del regista è quello di sempre, spietatamente realistico e coerentemente, orgogliosamente militante. L'obiettivo di Loach è puntato qui non tanto sulla descrizione dei quartieri poveri e dei bassifondi della metropoli americana, quanto sulle dure condizioni di lavoro dei clandestini, sull'assenza di garanzie e su una spietata realtà fatta di ricatti e sfruttamento: con il piglio realistico, quasi "scientifico" ma anche assolutamente appassionato che gli è tipico, il regista ci fa entrare all'interno del luogo di lavoro di Maya e dei suoi compagni, e ci mostra la loro graduale, nonché dolorosa, presa di coscienza.

E' una disamina sentita, straordinariamente appassionata, quella che il regista inglese ci offre attraverso le immagini: anche quando il tono è da commedia, il contenuto è duro, e il messaggio che ne viene fuori non dà spazio a compromessi. Loach ci mostra chiaramente l'arroganza padronale, la logica del "o ti adegui o sei fuori" che è alla base di questo come di mille altri rapporti di lavoro. L'abilità del regista nel far "sentire" allo spettatore le ingiustizie subite dai più deboli, nel renderlo partecipe delle sofferenze di questi "invisibili", non è cambiata nel tempo; il taglio quasi documentaristico, la brutalità con cui gli eventi vengono rappresentati, generano un alto livello di coinvolgimento. E' un messaggio chiaro, quello di Loach, molto preciso e senza possibilità di fraintendimenti: gli sfruttati devono organizzarsi, e alzare la testa per rivendicare i diritti che vengono loro negati. Per quanto dura possa essere la lotta, per quanta sofferenza e privazioni essa potrà generare, i lavoratori non hanno alternative: chinare la testa, infatti, vuol dire soffrire per sempre, condannarsi a una vita di miseria e umiliazioni. Questa filosofia è ben riassunta nel personaggio di Sam, idealista, combattivo e insofferente ai compromessi a cui la sua stessa organizzazione si piega: il giovane, col suo entusiasmo, trascinerà Maya e gran parte dei suoi compagni, che vedranno in lui e nel sindacato una possibilità in precedenza mai nemmeno considerata: quella di uscire dalla propria condizione di subalternità.

Loach è bravissimo anche nel descrivere le ripercussioni della lotta sugli affetti, sulle amicizie e su un consolidato substrato di rapporti che finiranno per incrinarsi: emblematico è lo scontro che si consumerà tra Maya e sua sorella Rosa, di posizioni filo-padronali, culminato col drammatico confronto verso la fine del film. Faide, tradimenti, scontri fratricidi: la lotta non è senza conseguenze, e queste ultime non risparmieranno nessuna sfera della vita dell'individuo. Tuttavia, anche in questo caso il messaggio è chiaro: la colpa di tutto ciò è di chi si ostina a sfruttare le persone e a negare i diritti più elementari. Vale la pena rischiare di perdere il proprio lavoro, i propri affetti, di finire in carcere e mettere a repentaglio anche la propria vita, per cercare di migliorare le proprie condizioni? Loach è categorico: la risposta è assolutamente affermativa. E, unendosi e mostrando determinazione e coraggio, la battaglia può essere vinta. "Sì, se puede", ovvero "Sì, si può", è lo slogan ripetuto tante volte dai lavoratori nel corso del film. Vincere è possibile, quindi, come successe nel 1912 per gli operai di Lawrence, che dopo due mesi di una lotta durissima, si videro riconoscere tutte le proprie rivendicazioni. E' difficile non restare coinvolti dalle sequenze del corteo finale, da quella marcia imponente, determinata, compatta, con quella gente pronta a tutto pur di rivendicare i propri diritti.

L'unico difetto del film è forse quello di non aver approfondito la doppia storia d'amore della protagonista (con uno dei pulitori prima, e con Sam poi): le due relazioni restano piuttosto accennate (specie la prima), e la sceneggiatura sceglie di sacrificare gli sviluppi che potevano derivarne in nome del primario intento del film: descrivere una condizione di vita e gli sforzi fatti da chi la vive per uscirne.
La buona prova degli attori, quasi tutti sconosciuti, e per questo tanto più in grado di suscitare empatia nello spettatore (l'unico volto noto al grande pubblico è un simpatico e anarchico Adrien Brody, decisamente azzeccato per il ruolo di Sam), completa un film riuscito, sicuramente non il migliore del suo autore, ma rappresentante comunque un tassello importante in una carriera che si contraddistingue per una coerenza (tematica, stilistica e di intenti) davvero invidiabile.

Movieplayer.it

4.0/5