L'artigianato del cinema indie, i siparietti di morettiana memoria, i flussi di coscienza e il disagio esistenziale di una generazione. Il tutto infarcito da un citazionismo diffuso che guarda con nostalgia al cinema del passato e che però rischia spesso di appesantire la scrittura: è così che Luca Zambianchi, giovane regista bolognese, firma il suo debutto alla regia di un lungometraggio, arrivato dopo cinque corti e che si guadagna l'uscita in sala dal 26 maggio (qui potete leggere la recensione di Quel che conta è il pensiero). Pur nella evidente povertà di mezzi e inciampando in qualche ingenuità di troppo, Zambianchi compie un'operazione molto coraggiosa sospesa tra dialoghi surreali e disincantati. Peccato resti ancorato troppo saldamente ai modelli a cui si ispira, senza la giusta spinta innovatrice.
Una commedia generazionale
La struttura di Quel che conta è il pensiero è quella di una commedia generazionale dal sapore un po' retrò. Tutto ruota attorno al protagonista Giovanni (interpretato dallo stesso Luca Zambianchi che qui dirige, scrive, produce e monta), un giovane studente di medicina depresso, logorroico, incapace di uscire dal suo rigido schematismo, con la passione per il cinema, preoccupato più delle prove di uno sgangherato spettacolo teatrale, "La Lavanderia di Sigmund", ispirato ai grandi filosofi del passato, che degli esami da preparare. Si è appena lasciato con la ragazza e insieme a Michele, l'amico latin lover con cui condivide un appartamento a Bologna, è alla ricerca di un terzo coinquilino ma con scarsi risultati, fino a quando un giorno non si presenterà alla porta Asia, laureanda in economia. La sua presenza non servirà certo a curare l'inquieto e malinconico incedere di Giovanni, ma qualche scossone lo porterà nel vagabondare dei due personaggi maschili e in quelle giornate quasi tutte uguali trascorse tra tazzine di caffè in cucina, feste Erasmus avvolte da nuvole di fumo, pulizie domestiche, esami procrastinati, lo spettacolo da mettere in scena e le interminabili chiacchierate sull'arte e il senso della vita nel sottoscala di una sala prove.
Le migliori commedie italiane recenti
L'omaggio a Moretti
"Una commedia sinceramente autarchica" recita il sottotitolo sulla locandina del film, che si rivela un chiaro omaggio al Nanni Moretti della prima ora: l'insoddisfatto Giovanni, che si trascina stancamente tra le prove di uno spettacolo d'avanguardia, l'incombere degli esami e una serie di pratiche burocratiche colpevoli di soffocare le sue velleità artistiche, altro non è che l'ennesima faccia del Michele Apicella di Io sono un autarchico o Ecce bombo. Un riferimento esibito in più di un'occasione e che in alcuni passaggi rischia di compromettere l'autenticità dell'opera, ma che serve a tracciare una direzione, suggerire toni e atmosfere. Ne viene fuori il ritratto di una generazione sospesa, "piena di rincoglioniti" che "muoiono investiti per strada perché vanno a catturare Pokémon", oppressa dal senso di colpa, che si sente costantemente in debito con quella dei propri padri perché le era stato promesso tanto, ma che poi "non ha mai neanche incominciato a giocare".
Tutti i personaggi galleggiano in una precarietà economica ed esistenziale suggerita dal susseguirsi di inquadrature fisse e lunghi piani sequenza che si infilano tra le pareti bianche dell'appartamento dei tre studenti, su cui non campeggia null'altro che un poster di Giorgio Gaber, o sotto i portici bolognesi o in quell'iconico sottoscala che diventa luogo di riflessione, domande senza risposta e lunghe disquisizioni su Tarkovskij, Murnau, László Nemes. Ce n'è per tutti: la cultura del paese, i critici cinematografici o quegli intellettuali che "passano il tempo su Facebook a fare la parte dei colti, dei democratici a patto che gli scemi siano gli altri".
Battute e situazioni sfociano quasi sempre nell'autoironia, ma non sempre sono supportate dalla giusta dose di verità, complice una recitazione a volte poco naturale, mentre il resto affoga spesso in un mare di citazioni, troppe. Menzione speciale al ruolo del protagonista, con cui per un qualsiasi millennial non sarà difficile empatizzare: "Non mi sento portato per il futuro, va tutto troppo forte per me: i treni, le auto, la centrifuga della lavatrice", meglio invece come "perditore di occasioni o pianificatore di passato".
Conclusioni
Come già ampiamente ribadito nella recensione di Quel che conta è il pensiero, l’opera d’esordio di Luca Zambianchi deve molto al cinema di Nanni Moretti: il protagonista Giorgio non può non ricordare nel suo stanco incedere il Michele Apicella di Io sono un autarchico e Ecce bombo. Tuttavia tentativo di omaggiarlo non sempre si rivela equilibrato: il citazionismo diffuso rischia di essere opprimente e di ridurre questo ritratto generazionale ad una emulazione del lavoro del suo principale ispiratore.
Perché ci piace
- Una commedia generazionale dal sapore un po’ retrò, sospesa tra dialoghi surreali e disincantati.
- L’autoironia di morettiana memoria.
- Il vagabondare stanco del protagonista Giovanni: impossibile per un qualsiasi millennial non empatizzare con lui.
Cosa non va
- L’eccessivo citazionismo rischia di far perdere al film la sua autenticità.
- Manca in alcuni momenti la giusta dose di credibilità, complice interpretazioni a volto poco naturali.
- Il resto dei personaggi avrebbe meritato maggiore spazio.