Recensione Voce del verbo amore (2007)

Una commedia spensierata che non fa ridere praticamente mai né riesce a far riflettere sull'importanza di concedersi una seconda chance.

Quando l'amore fa rima con cuore

E' una bella canzone dei cesenati Sunday Morning ad aprire il nuovo film di Andrea Manni, quattro anni dopo il buon esordio de Il fuggiasco, un thriller tratto da un romanzo di Massimo Carlotto che narrava l'odissea legale dello scrittore per un'ingiusta accusa di omicidio. Il film aveva fatto ben sperare sul futuro del regista romano, ma il suo secondo lungometraggio per il cinema è una commedia senza verve che naufraga sulle sponde desolanti del buonismo insostenibile, firmata da Maurizio Costanzo, autore del soggetto e tra gli sceneggiatori di Voce del verbo amore. Il baffuto presentatore utilizza il cinema per raccontare una banale storia da salotto televisivo: due persone che si amano, si sposano e hanno dei figli sono poi divisi dall'immancabile crisi matrimoniale. Cosa resta da fare in quel momento critico? Bisogna rimboccarsi le maniche e reinventarsi una nuova vita da soli o c'è ancora la possibilità di ritornare insieme e riprendere il cammino da dove si era interrotto? La risposta secondo Costanzo è la più consolatoria (e a noi pare quella più spesso inverosimile) e il film prova a raccontare, senza mai riuscirci realmente, le difficoltà di una ritrovata condizione da single (ma con la nuova ed ineludibile variante figli) e gli spazi aperti per la riconciliazione.

Costanzo, da buon profeta del tubo catodico, porta sullo schermo quelle storie ordinarie di gente comune a cui sembra essere tanto affezionato e nella quotidianità degli affetti interrotti pontifica sul più nobile dei sentimenti: "La differenza tra voler bene ed amare è che se vuoi bene a qualcuno puoi farne a meno, ma se ami qualcuno non puoi vivere senza". Questa la sua risibile definizione dell'amore che esprime il senso del film e da conto della sua pochezza. Reduce dalla sceneggiatura del demenziale Troppo belli, figlio legittimo della sua cattiva televisione, Costanzo tratteggia nuovamente dei personaggi macchiettistici senza alcun approfondimento psicologico che si muovono ogni volta in maniera così scontata da risultare irrimediabilmente fasulli. Ci si chiede poi perché nel cinema italiano i figli di una coppia separata debbano sempre essere un maschio e una femmina, con lui più piccolo e pestifero e lei più grande e matura, una scarsa fantasia che fornisce un ennesimo esempio della crisi di idee nel nostro cinema e ci dice perché spesso i film italiani sembrino tutti uguali.

Voce del verbo amore è una commedia spensierata che non fa ridere praticamente mai (e non contribuiscono certo alla causa le battute di bassa lega infilate subdolamente durante tutto il film) né riesce a far riflettere sull'importanza di concedersi una seconda chance. Il film soffre inoltre di una scarsa aderenza degli attori protagonisti ai propri ruoli: Giorgio Pasotti non è ancora credibile come padre (lui che è stato splendido figlio in uno dei più promettenti esordi degli ultimi anni, L'aria salata di Alessandro Angelini) e Stefania Rocca carica la sua madre di quell'isterismo tipicamente mucciniano che stona col tono scanzonato della pellicola.

C'è un'evidente difficoltà in Italia di produrre delle commedie decenti ormai da molti anni, perché forse raccontare i nostri luoghi comuni inquieta più che far sorridere. Non basta giocare la carta di un buon regista a salvare un soggetto banale, perché gli sprazzi di buon cinema fatti vedere da Manni in passato, con i bei movimenti di macchina che avevano caratterizzato il suo film d'esordio, qui sembrano solo un ricordo lontano. E alla fine la canzone posta in apertura (la già citata Is that racoon sweeter than me) risulta l'unica nota positiva di un film terribilmente stonato.