Piccoli maghi crescono. I film no.
Harry Potter atto quarto. Quarto anno alla scuola di magia di Hogwarts per il maghetto ed i suoi amici. Quarto film di una saga cinematografica che sta sbancando i botteghini di mezzo mondo, che così come quella letteraria è fenomeno commerciale e culturale di rilievo. Caratteristica dei film e dei libri di Harry Potter è quella per cui in ogni nuovo titolo si racconta un nuovo anno di scuola (e di vita) dei suoi giovani protagonisti, che gli spettatori seguono in questo modo passo passo nel loro processo di crescita. Un meccanismo seriale ingegnoso, studiato ad hoc per far crescere Potter e compagni di pari passo con il target di riferimento.
In Harry Potter e il calice di fuoco i protagonisti sono giunti all'età di 14 anni, sono entrati a pieno titolo nell'adolescenza, con tutto quello che essa comporta in termini di sconvolgimenti emotivo-ormonali e di innalzamento del livello di complessità dei rapporti interpersonali: da un lato quindi il film di Mike Newell rispetta il canovaccio tipo dei film della serie, con Harry involontario protagonista di sfide a base di magia, costantemente minacciato da Voldemort e dai suoi seguaci; dall'altro l'aspetto della vita quotidiana dell'occhialuto ragazzo e dei suoi compagni è amplificato, complice l'arrivo a Hogwarts di due altre scolaresche, una di vezzose maghe francesi, l'altra di burberi stregoni provenienti dalla Bulgaria.
Per quanto riguarda il primo versante, c'è ben poco da dire: apparizione di Voldemort a parte - in una scena che ricorda in maniera piuttosto esplicita come forma e contenuti i confronti tra Luke Skywalker e l'Imperatore di starwarsiana memoria - tutto scorre lungo binari noti e risaputi. Newell fa quel che può per regalare emozioni e spettacolo agli spettatori, non riuscendo però nemmeno attraverso l'(ab)uso degli effetti speciali a conquistare, e soprattutto presentando un andamento narrativo frammentario e frettoloso, nonostante le oltre due ore e mezzo di film. Risultato: noia, a patto di non essere un hard-core fan di Potter.
Leggermente meglio le cose vanno quando Newell si concentra sul privato di Harry, sulle schermaglie con l'inizialmente invidioso Ron, sui primi approcci tra ragazzi e ragazze fatti d'imbarazzi, indecisioni e incertezze. Molte scene di questo genere, su tutte quella di un gran ballo che vede coinvolte tutte e tre le scuole di magia, ricordano da vicino le commedie adolescenziali di John Hughes, con forme e stereotipi presi di peso da pellicole come Bella in rosa o Sixteen candles - Un compleanno da ricordare. Risultato: si sorride, ma soprattutto perché ci si ricorda di Molly Ringwald e compagnia.
Pubblicizzato come film dark e cupo, questo Harry Potter e il calice di fuoco lo è unicamente nella misura in cui si dà il corpo di Ralph Fiennes a quel Voldemort che era stato sinora solo un'entità, nell'incipit che ricorda le scene più scure del Signore degli Anelli e per la messa in scena dell'unico vero lutto che è descritto in questi primi quattro capitoli della saga. Un dark e una cupezza solo sporadiche, nel complesso presenti persino in maniera minore di quanto visto nell'episodio firmato da Alfonso Cuaron.
Tutti gli elementi discontinui che abbiamo raccontato finora non fanno altro che accentuare la natura episodica e frammentata del film di Newell, non il peggiore né il migliore di quelli prodotti finora dalla franchise cinematografica. Al di là della consueta classe sfoggiata dal gotha del cinema britannico nei ruoli degli insegnati di Hogwarts, gli unici motivi d'interesse nel film sono rappresentati dai tentativi di rielaborazione di altri immaginari cinematografici come quelli citati e nella curiosa sovrapposizione tra crescita dei personaggi sullo schermo, crescita degli attori che li interpretano, crescita del pubblico di riferimento. Il resto è per i fan, o per chi si accontenta di un immaginario fantasy figlio della standardizzazione e delle esigenze di marketing.