Dopo I bambini della sua vita e il documentario su Liliana Cavani, Peter Marcias torna nella sua Sardegna per raccontarci una storia di emarginazione e insieme un dramma di volti e corpi che cerca di aprire lo sguardo ed allargare l'orizzonte su una realtà dolorosa e ingiusta che riguarda strettamente il nostro paese, un argomento che il cinema 'ufficiale' troppo spesso tende ad ignorare. Scritto da Gianni Loy, il film parla sì di un popolo relegato ai margini della società dallo Stato ma più in generale affronta il tema della diversità e dell'integrazione ma parla anche d'amore, amicizia e di comprensione, valori che vanno oltre la razza, il colore della pelle e la nazionalità. Ad accompagnare il film a Torino il giovane regista insieme allo sceneggiatore e ai due attori protagonisti Luli Bitri e Salvatore Cantalupo, rispettivamente una ragazza di origini rom che vive in Francia e un ispettore di polizia di mezza età che diventano amici. Prodotto e distribuito da Gianluca Arcopinto, rispettivamente con la Axelotil Film e con la Pablo, Dimmi che destino avrò è sostenuto dall'Unicef come film di interesse sociale per l'alto valore del messaggio e del tema trattato e sarà nelle sale a partire da giovedì 29 novembre.
Signor Marcias, ci spiega com'è entrato in contatto con la realtà dei campi rom?Peter Marcias: Per la realizzazione di questo film siamo partiti da una sceneggiatura di Gianni Loy che collabora con la Fondazione Anna Ruggiu onlus e lavora con i tanti campi nomadi presenti in Sardegna, per lo più campi amministrati dalle autonomie locali. Personalmente era la prima volta che entravo in un campo rom, per me è stato un po' come seguire lo stesso percorso umano che intraprende il commissario nel film. E' stata un'esperienza importante per me sia dal punto di vista umano sia professionale.
Come descriverebbe il suo film in poche parole?
Peter Marcias: Dimmi che destino avrò è più di tutto un film sull'interazione più che sull'integrazione, un film che sfrutta elementi di fiction per raccontare la realtà.
Peter Marcias: Era sostanzialmente quello che volevo venisse fuori dal film, mi sembrava troppo semplicistico realizzare il solito thriller in cui c'è un commissario che esegue le indagini all'interno del campo rom, ho preferito farlo entrare a contatto con la realtà dei nomadi un po' in sordina, quasi in punta di piedi. Mi interessava poi che fosse una donna a prendere il sopravvento sulla vicenda ma non nascondo che questa linea è venuta fuori successivamente e cioè quando il film era già in corso d'opera. Capisco che questo aspetto possa sembrare un po' inverosimile ma ho preferito dirigere la storia verso binari non consueti, è per questo che abbiamo fatto in modo che non accadesse nulla di romantico tra i due protagonisti. Devo ammettere di aver un po' giocato sotto questo aspetto. Ci spiega come sono andate le riprese nei campi e in che zone è stato girato il film?
Peter Marcias: Abbiamo girato in due diversi campi, quello di Monserrato e quello vicino a Selargius. Il bello è che dovevamo stare una settimana ed invece alla fine ci siamo stati un mese e mezzo, all'inizio non è stato facile farsi accettare dalla comunità rom ed è anche comprensibile visto che siamo piombati nella loro vita all'improvviso con le nostre attrezzature senza aver loro prima spiegato il tutto. Successivamente si sono dimostrati curiosi nei confronti del film, dei meccanismi organizzativi sul set, dei ciak, degli attori mentre noi dal canto nostro abbiamo cercato di coinvolgerli in tutto e per tutto nelle scene del film facendo interpretare ad alcuni di loro il ruolo di alcuni poliziotti durante la scena della perquisizione. Quello che non volevamo era approfittare del loro naturale folklore per raccontare la nostra storia, abbiamo voluto raccontare la loro vita nella loro essenza. Come hanno vissuto i due attori questo stretto contatto con la comunità rom e come hanno lavorato per affrontare al meglio i loro personaggi?
Luli Bitri: Per me era un po' più difficile perché dovevo essere una di loro, per prepararmi ho fatto ricerche letterarie ma quel che mi ha più aiutato è stato l'incontro con una ragazza che era nella stessa situazione di Alina, il mio personaggio, e quindi ho usato i suoi consigli linguistici e comportamentali per entrare nella psicologia delle donne della comunità. Col passare dei giorni poi sono diventati degli amici per me, mangiavamo insieme, stavamo ore a chiacchierare e qualcuno si è anche confidato intimamente con me, alla fine mi sono dimenticata di essere un'attrice. Posso dire di aver preso parte ad un pezzettino della loro vita e di aver regalato loro qualche momento di riflessione stuzzicando la loro curiosità e le loro speranze per il futuro.
Salvatore Cantalupo: Mi sono molto rispecchiato nei bambini rom che ho allenato sul campo di calcio nel film, facevano gli stessi giochi che facevo io da scugnizzo napoletano, ma più di ogni altra cosa ho cercato di vivere il più umanamente possibile il mio personaggio.