Le ansie dei giovani raccontate attraverso le pagine della letteratura contemporanea sembrano rappresentare per Matteo Rovere una fonte d'ispirazione irrinunciabile. Così, dopo aver esordito nel 2008 con le bad girls di Un gioco da ragazze tratto dal romanzo omonimo di Andrea Cotti, il regista continua nel suo tentativo di tracciare il profilo di una generazione sempre più sfuggente con Gli sfiorati. Ispirato all'opera di Sandro Veronesi e distribuito da Fandango dal 2 marzo in 80 copie, la seconda regia di Rovere si avventura nella quotidianità in movimento della poco più adolescente Belinda (Miriam Giovanelli) e del fratellastro Metè (Andrea Bosca), cui viene provvisoriamente affidata in occasione del matrimonio dei genitori. Intorno a loro gravitano una serie di personaggi dotati "di una ricettività e una capacità di esporsi fuori dal comune", come ama definirli lo stesso regista. Una sorta di umanità in perenne ricerca che in Claudio Santamaria, Michele Riondino e Asia Argento trova spessore interpretativo.
Gli sfiorati è liberamente tratto dal romanzo omonimo di Sandro Veronesi. Quali elementi hanno costituito la base per attualizzare una storia sicuramente poco rassicurante per il pubblico e le famiglie italiane?
Matteo Rovere: Non avevo intenzione di stravolgere nessun tipo di sistema familiare, ma quando Domenico Procacci mi ha proposto il romanzo sono rimasto immediatamente impressionato dal cuore pulsante di questa vicenda. È per questo motivo che nella trasposizione cinematografica con gli sceneggiatori Francesco Piccolo e Laura Paolucci abbiamo scelto di rispettare lo spirito del racconto più che l'intreccio narrativo. Già tra le pagine di Veronesi si poteva scorgere un'interessante contaminazione tra la leggerezza dello stile e la densità del significato. E questa è stata la chiave attraverso la quale ho voluto ricostruire il percorso di un amore impossibile e l'ossessione per l'oggetto del proprio desiderio.Tanto per dimostrare che leggerezza non sempre vuol dire superficialità.
Francesco Piccolo: Il romanzo di Veronesi risale agli anni ottanta e prima di affrontare la fase di scrittura con Laura ci siamo posti delle domande. Innanzi tutto era essenziale comprendere come poter attualizzare l'insieme, in secondo luogo ci siamo chiesti se il tipo di gioventù tratteggiata esistesse ancora. La risposta è stata sicuramente positiva, anzi, riflettendo, sulla problematica, abbiamo capito quanto la realtà di oggi avesse messo ancora più a fuoco determinate caratteristiche generazionali. Per Caos calmo avevamo scelto di rimanere fedeli al testo, in questo caso, invece, ci siamo allontanati preferendo la costruzione di una struttura circolare che prende il via proprio dall'epilogo per procedere all'indietro. In fin dei conti i romanzi sono un enorme contenitore di elementi da rimescolare a seconda del mezzo utilizzato per dare loro voce.
Domenico Procacci: Praticamente sono più di quindici anni che riflettiamo sulla possibilità di un film da questo romanzo. Le parole e i pensieri si sono concretizzati alla luce dell'improvvisa fortuna di una certa commedia dedicata al pubblico più giovane. A quel punto, abbiamo pensato di produrre un film che si ponesse come obiettivo quello di raccontare una generazione con leggerezza ma senza rinunciare alla profondità. La scelta di Matteo dietro la macchina da presa, poi, nasce dalla volontà di cambiare punto di vista, di rinunciare a uno sguardo distante da fratello maggiore in favore di un'appartenenza all'oggetto del nostro racconto.
Andando momentaneamente oltre la problematica familiare e quella dell'incesto fraterno, uno degli elementi più potenti del film è da rintracciare in un cast che veste perfettamente la singolarità dell'individuo per poi creare un insieme multiforme e completo. Com'è avvenuta la scelta degli attori e, soprattutto, come avete lavorato sulla caratterizzazione dei personaggi? Matteo Rovere: La scelta di ogni attore ha una storia a se. In modo particolare mi sembra interessante la presenza di molti personaggi principali costruiti a tutto tondo e con caratteri sfaccettati. Con Asia Argento, ad esempio, ci siamo divertiti molto in fase di lettura a tratteggiare le originalità della sua Beatrice. Attraverso di lei abbiamo raccontato l'insicurezza di una categoria femminile molto peculiare.
Nonostante le loro piccole grandi tragedie personali, ogni personaggio sembra avere un risvolto goffo e buffo, soprattutto se messi a confronto con le difficoltà. Come vi siete confrontati con questi caratteri spesso inafferrabili e mutevoli? Andrea Bosca: La sfida più grande è stata emotiva. Il film ha costretto tutti noi ad abitare luoghi desiderati ma anche inconfessabili. Il nostro compito è stato quello di raccontare un universo sconosciuto grazie a dei compagni di viaggio coinvolti nelle stesse difficoltà. Fortunatamente Matteo è riuscito a dare un ordine a tutto questo disordine emotivo, costruendo attraverso una chiave ilare e leggera una storia che somiglia a ognuno di noi. D'altronde siamo tutte persone che cercano affannosamente un modo per passare attraverso le difficoltà.Claudio Santamaria: Abbiamo lavorato parecchio in fase di lettura, soprattutto con Michele Riondino e Andrea. tralasciando il problema di dover indossare delle scarpe bruttissime, per quanto mi riguarda ho trovato delle difficoltà a definire una caratterizzazione fisica di Bruno, diversa e lontana dalla mia. Dopo molte prove sono finalmente riuscito a trovare la centralità del personaggio. Lui è il più terreno di tutti, anche perché si trova coinvolto in situazione che non può fuggire. L'unico momento di leggerezza ed evasione è rappresentato dal suo lavoro. Per questo motivo crea la teoria degli sfiorati attraverso lo studio della grafia. Si tratta di una nuova categoria non incasellabile in nessuna tipologia esistente. Persone che non hanno punti fermi e vivono le situazioni in profondità ma con costante mutevolezza.
Miriam Giovnelli: Per quanto mi riguarda, questa è stata la prima volta in cui mi sono sentita un'attrice, nel senso che ho vissuto l'esperienza di lavorare con un regista che mi ha diretto. Quindi, tutti gli elementi caratteriali di Belinda hanno a che vedere direttamente con il lavoro di Matteo.
Asia Argento: Matteo è un regista incredibilmente esigente.Talmente tanto che, durante le prove, mi sono sentita spesso incapace di sostenere il ruolo. Alla fine è stato divertente fare la conoscenza con una donna così profondamente diversa da me. Beatrice vive a Roma, parla quasi esclusivamente di se e, dei suoi viaggi. In questo modo pensa di conquistare l'amore degli uomini, quando in realtà scappano tutti a gambe levate. E' la tipica creatura dei salotti romani ed io ne conosco molte di queste donne autoreferenziali.
La città di Roma, è una protagonista aggiunta all'interno del film. Come hai sviluppato la parte scenografica e la scelta delle location? Matteo Rovere: La città è profondamente presente anche tra le pagine di Veronesi. Il suo è lo sguardo di chi viene da fuori, il mio, invece, è quello di chi appartiene a questo luogo fin dalla nascita. Riflettendo poi sulla scenografia da costruire intorno alla vicenda, non poteva essere altro che il centro storico. Un luogo costruito su delle stratificazioni e abitato da gente non sempre in grado di possederlo.
Il film sembra raccontare anche la precarietà di una generazione che si riflettere soprattutto nella difficoltà di trovare una collocazione personale.... Matteo Rovere: Noi viviamo in una società particolarmente difficile da affrontare dove i ragazzi, e non solo, si affannano in una perenne difesa. I miei sfiorati sono tutti quelli che combattono per cercare ad ogni costo la loro felicità. I loro affanni si concentrano soprattutto nel tentativo disperato di rintracciare gli strumenti all'interno di un mondo poco generoso. Per riuscire in questo si lasciano andare alle emozioni e scelgono di lasciarsi travolgere dagli eventi.Asia Argento: Negli anni ottanta tutto era più liquido e i giovani riuscivano a fluire con maggior facilità. Oggi ci sono sempre più porte chiuse e meno spazi mentali dove poter sognare.
Andrea Bosca: Sono delle persone che non hanno un punto fermo e vivono sottoposti ad un costante cambiamento, visto che l'esterno non offre alcuna sicurezza.