Recensione Little Sparrows (2010)

Piccolo film prevalentemente al femminile, esordio della regista taiwanese Yu-Hsiu Camille Chen, Little Sparrows scandaglia gli abissi del dolore con leggerezza, con un tocco trattenuto e scevro da enfasi.

Passeri caduti dal nido

In una cittadina australiana si dipanano le storie dei membri di una famiglia, toccati dalla tragica realtà della malattia della madre Susan, che ha un tumore mammario appena recidivato. Il marito James, attore distratto e poco presente in famiglia, è disperato e incapace di affrontare l'inevitabile decorso della malattia, spaventato dalla solitudine che ora vede con tanta chiarezza; le tre figlie si vedono nell'imminenza di essere private, oltre che dell'affetto di una madre, di un punto di riferimento fondamentale nelle loro vite: Anna, attrice teatrale sposata con un regista egoista e pieno di sé, ha un amante e non ha il coraggio di porre fine al suo matrimonio; Nina è vedova e ha due figli piccoli, e si è costruita una corazza che le impedisce di crearsi una nuova relazione; Christine, la più giovane, vive ancora con i genitori, è lesbica e non ha mai avuto il coraggio di dichiararlo. Dopo un Natale in cui la famiglia si ritrova insieme, unita per l'ultima volta, Susan aiuterà ognuna delle tre figlie ad affrontare i propri fantasmi e a ritrovare sé stessa, oltre a liberarsi anche lei, poco prima di andarsene, dei segreti che finora si è portata con sé.

Piccolo film prevalentemente al femminile, esordio della regista taiwanese Yu-Hsiu Camille Chen, Little Sparrows scandaglia gli abissi del dolore con leggerezza, con un tocco trattenuto e scevro da enfasi. Le storie delle tre sorelle, i tre passeri del titolo, vengono affrontate separatamente, ognuna con una sorta di "confessione" iniziale, una narrazione biografica in cui le protagoniste parlano di sé di fronte alla macchina da presa, quasi come in un documentario. E in effetti, del documentario e di certi esempi di cinema post-Dogma (nonostante le diversità di approccio ai temi e di sensibilità generale) il film ha l'estetica, l'uso frequente della camera a spalla, l'illuminazione naturale e il realismo generale della messa in scena. Come ha dichiarato il direttore della fotografia Jason Thomas, la luce sembra un po' un personaggio a sé della narrazione, elemento in grado di scaldare le problematiche vite delle tre sorelle (ma anche del personaggio forse più debole, il marito James) dopo che la presenza forte e unificante di Susan sarà venuta meno. Vite che non sembrano pronte ad affrontare gli inevitabili sviluppi degli eventi, ma che troveranno in quell'ultimo contatto un conforto che sarà più di una mera terapia emotiva, ma rappresenterà anche una riscoperta del lato umano, debole e anch'esso non scevro da inquietudini, della stessa Susan.
E' un peccato, in questo senso, che il film, generalmente ben costruito e diretto con un notevole senso dell'immagine e della gestione significante degli ambienti, pecchi un po' a livello narrativo, specie nel delineare il personaggio della stessa Susan. Sono certi passaggi un po' troppo sopra le righe, certi dialoghi in cui questa madre, di cui si voleva rendere la complessità, appare quasi come presenza già sovrannaturale, angelo in grado di consigliare e instradare, a farle perdere complessivamente spessore. Ed è infatti proprio quando questa definizione quasi messianica del personaggio si allenta che il film dà emotivamente il meglio di sé, come nel dialogo, basato sul non detto e l'empatia, con la figlia più insicura delle tre (ma forse anche più onesta nella sua insicurezza), la giovane Christine. Un modo più sfumato e meno esplicito di definire il carattere di Susan avrebbe forse giovato al film, nonostante l'ottima interpretazione (tra le generali buone prove del cast) di una Nicola Bartlett che sembra sentire molto il personaggio, brava anche a delinearne la sofferenza a livello emotivo e fisico.

Movieplayer.it

3.0/5