Parthenope, il cinema di Sorrentino è una continua ricerca del mistero

Parthenope, tra mythos e realtà, è il personaggio (e quindi il film) in cui Paolo Sorrentino proietta il senso della sua contemplazione del mondo. Alla ricerca del mistero che è celato al suo interno.

Celeste Dalla Porta è Parthenope

Il cinema di Paolo Sorrentino è sempre stato caratterizzato da uno sguardo in bilico, tra superficie e complessità, realtà ed evocazione, visibile e intuibile, domanda e risposta. Questo è il motivo fondamentale per il quale i suoi film sono più contemplativi che legati ad all'azione, più descrittivi che impegnati nella narrazione. Il riferimento è ad una visione in cui il cinema è in grado di andare oltre il comune dell'esistenza e accedere a una dimensione nascosta sebbene profondamente ad esso connaturata, legata al mistero. Una brina, un sottobosco, una patina essenziale, che attraversa il visibile, lo riempie e, ogni tanto, parla. Il regista napoletano a questo è interessato perché, forse, è l'unica cosa che vale la pena indagare.

Parthenope Sorrentino Film
Celeste Dalla Porta e Paolo Sorrentino sul set di Parthenope.

Parthenope è la pellicola in cui questo leitmotiv lungo dieci film (e una bellissima serie televisiva) si esplicita nel modo più dichiarato (e quindi celato) possibile. Infatti è il primo film di Sorrentino con un personaggio che rappresenta questa sospensione, questo vivere a metà, nata nella dimensione liquida che avvolge e accoglie mythos e Storia ed è, guarda caso, anche la sua prima protagonista femminile.

Una dichiarazione d'intenti da parte del regista premio Oscar: il mistero è femmina. Il mistero in quanto tale, sia esso legato a Napoli, alla giovinezza, ai ricordi, all'antropologia, alla fede. Attraverso il personaggio interpretato da Celeste Dalla Porta è possibile osservare il mistero perché si utilizza un mistero stesso per compiere tale atto.

Parthenope divina e umana, come il cinema di Sorrentino

Celeste Dalla Porta Parthenope
Celeste Dalla Porta è Parthenope.

Ad osservare il corso della filmografia sorrentiana ci si accorge come essa sia una "scusa" per una lunghissima digressione che parte dall'osservazione. I personaggi del cineasta napoletano girano per il mondo e osservano, attraversano il loro presente e trovano in esso degli sprazzi, parafrasando Gambardella, di qualcos'altro. Si elevano rispetto agli altri perché consapevoli di un altro piano che la realtà cela, ma sfugge ai più.

Parthenope nasce come ibrido, in parte frutto di questa dimensione nascosta, e infatti da tutti viene osservata. Lei, in quanto consapevole rappresentante di questo mondo altro, diviene colei in cui Paolo Sorrentino proietta l'oggetto dei sui desideri. Un fil rouge che collega la pellicola soprattutto ad una certa fase della produzione del registsa: il finale de La Grande Bellezza, il microcosmo di The Youth, ma che può essere rintracciato in The Young Pope, e, ancora prima, al ricordo del migliore amico di Titta Di Girolamo. Qualcosa di osservabile, ma comunque irraggiungibile.

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Paolo Sorrentino e Daria D'Antonio sul set di Parthenope.

In È stata la mano di Dio si racconta la genesi di questa ricerca, che nasce da un bisogno esistenziale, mentre in Parthenope la si mette in scena nel modo più palese, ancora più che ne Il Divo e in Loro, i due grandi affreschi sulle maschere che in Italia hanno rappresentato il mistero del potere. L'idea stessa di creare questo divino racconto di formazione, che si fa secolarizzato, attraverso una catena di ricordi, permette di adottare un punto di vista molto più cinematografico (ricordo e sogno sono le logiche in cui meglio si muove la Settima Arte, secondo la lezione felliniana), suggerimento di come si è già deciso di andare oltre il reale.

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Il mistero che fa pensare a tutto il resto

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Gary Oldman in Parthenope.

Questa cornice giustifica un andamento episodico (si sognano episodi, si ricordano episodi) che permette a Parthenope di viaggiare attraverso dei momenti conseguenziali, ma distinti, quindi sempre ad un passo diverso da quello del racconto classico. La prima (e poi anche l'ultima, ma da un punto di vista senile) riguarda la gioventù, momento in cui il mistero è dentro di lei più che dentro chiunque altro.

Nel proseguire si opera un ribaltamento ed è la Storia stessa ad attraversare Parthenope, filtrata attraverso uno sguardo che si fa interrogativo verso il resto, improvvisamente alla ricerca di domande, quando prima, c'era una predilezione solo per le risposte (le "pontificazioni" sorrentiniane). Alla scoperta di volti, personaggi, luoghi, rituali e maschere, il film si ferma improvvisamente quando Sorrentino ci dice una cosa che probabilmente prima non ha mai detto: forse questo mistero non esiste.

Il dubbio (nemesi massima e quindi orizzonte massimo per il cinema di Sorrentino) raggiunge Parthenope proprio quando si trova in sua prossimità, quando arriva a poterlo toccare, anzi, a poterlo indossare, quando riesce a trascendere la figura reale e diventare pienamente mythos. In quel momento il dubbio arriva: forse il mistero non c'è, forse è tutto una truffa. Forse la risposta non è lo scopo della ricerca, perché addentrarsi nel mistero vorrebbe dire morire, affogare. Forse, per vivere, bisogna continuare la digressione, continuare ad osservare, a ricordare e a contemplare. O forse no.