A chi dice che il cinema è in crisi, se non morto addirittura, noi consiglieremmo come prima cosa di vedere Parasite di Bong Joon-ho. Non solo per l'indiscutibile qualità della pellicola - confermata anche dalla Palma d'oro vinta a Cannes e dal gran parlare che se ne fa già ora in termini di futuri Oscar - ma per l'incredibile vitalità che riesce a restituire all'intera arte cinematografica contemporanea. Il gran pregio di Parasite - di cui in questa sede approfondiremo il finale - è proprio di quello che avere al suo interno tanti generi e tanti elementi apparentemente contrastanti: si ride e ci si diverte, si prova empatia per ciascuno dei personaggi, si rimane costantemente sorpresi dai nuovi sviluppi sempre più eccessivi e improbabili, ma dal profondo significato.
Poi, quasi in modo improvviso, arriva un finale tanto geniale quanto inaspettato; un epilogo amarissimo eppure perfettamente coerente con quanto ci era stato raccontato prima. Se già per alcuni aspetti superficiali della trama Parasite poteva essere in qualche modo avvicinato ad un altro (bel) film di quest'anno, l'horror Noi di Jordan Peele, con la sequenza conclusiva si rendono evidenti le differenze culturali e sociali delle due società che questi film rappresentano: quella occidentale e quella orientale. Proprio per questo motivo, quindi, vogliamo proporvi una nostra analisi e spiegazione del finale di Parasite, perché è proprio lì che forse risiedono gli aspetti più importanti del film e del cinema di Bong Joon-ho. Nonché anche gli elementi che lo rendono non solo un capolavoro, ma anche una delle opere cinematografiche più importanti e significative di queste decennio che si sta per chiudere. Ovviamente seguono spoiler su Parasite e, in parte, anche sul film Noi di Jordan Peele.
'Una commedia senza clown, una tragedia senza cattivi.'
Con queste parole Bong Joon-ho riassume il suo stesso film ed effettivamente non potrebbe esserci definizione più adatta. Si ride e si sorride tanto guardando Parasite, ma appunto è merito della sceneggiatura assolutamente perfetta e per le molte trovate geniali, non perché ci sia un personaggio o una situazione particolarmente comica. Allo stesso modo, le scene più drammatiche e tese non possono contare su un cattivo e nemmeno su un personaggio che sia spregevole o disprezzabile. Il vero villain del film è la vita stessa. O, meglio, la società in cui tutti noi viviamo, che ci inserisce su una sorta di "scala", con persone al di sopra che hanno molto più di noi e altri, al di sotto, che sono ben più disgraziati di quanto noi possiamo anche solo immaginare.
Come vi abbiamo già potuto raccontare nel nostro approfondimento precedente su Parasite, il film è fondamentalmente un arguto e interessantissimo affresco sociale che non sembra avere uguali. Se non andando molto, ma molto indietro nel tempo, ad un genio del calibro di Luis Buñuel. Se però i cattivi veri e propri non esistono, ci sono comunque delle vittime. Ma, ancora una volta, tutto è perfettamente calibrato in modo tale da non poter provare vero dispiacere per nessuno di loro: perché in fondo tutti, e sottolineiamo - davvero tutti, nessun escluso - ha comunque fatto qualcosa per meritarsi il proprio destino. Ma tutti, proprio tutti, avrebbero potuto meritarne anche uno migliore.
Come noi, diverso da Noi
Dicevamo delle similitudine con il film di Jordan Peele: Parasite e Noi sono due film quasi speculari perché entrambi sfruttano il cinema di genere per raccontarci e mostrarci quel che realmente siamo. Come individui, come classi sociali, come società. I due film partono quindi da assunti abbastanza simili, ma ben presto prendono uno svolgimento diversissimo che, ai fini di questa nostra analisi, non è importante. Quello che affascina è come la "morale" finale sia praticamente opposta: in Noi, al netto del colpo di scena finale che comunque rende più forte il suo significato, il senso ultimo di quanto abbiamo visto è che dobbiamo aspettarci, prima o poi, una rivoluzione. Jordan Peele è piuttosto chiaro in questo: non c'è più possibilità di redenzione, coloro che sono sfruttati prima o poi si ribelleranno e prenderanno il posto di coloro che oggi vivono, indifferenti, nell'agio, nella comodità o addirittura nel lusso, completamente noncuranti di quello che avviene, letteralmente, sotto i loro piedi. In Parasite l'allegoria è simile, ma il risultato quanto di più lontano si possa immaginare: nessuna rivoluzione, nessuna solidarietà tra più sfortunati, ma devozione e rispetto solo verso chi è "migliore" di noi. Fino a che, ad un certo punto, qualcosa scatta e anche lo "scarafaggio" è stufo di vedere lo sguardo schifato di chi è più grande e forte. Ed è così che ha un unico moto di ribellione; per poi tornare inevitabilmente a nascondersi.
Un finale da sogno, ma radicato nella realtà
Sono due finali particolarmente rappresentativi delle culture da cui provengono: in Noi c'è quel finto spirito ribelle tipico della cultura americana, la speranza che rappresenta il cuore dell'American Dream, c'è una volontà di fondo nel fare autocritica e spingere ad un cambiamento che, in ogni caso, non arriverà mai, perché in contrasto con lo spirito comunque capitalista di Hollywood e degli USA. In Parasite tutto questo non c'è, ma solo un senso di inevitabile sconfitta e resa. Si può sognare, certo, ed è esattamente quello che fa il protagonista alla fine del film: sognare che un giorno sarà talmente ricco da poter comprare egli stesso quella villa e donare felicità e libertà al padre, colui che si è "sacrificato" per l'orgoglio non solo della famiglia, ma di un'intera classe sociale. Ma è solo un sogno: lo sa lui, lo sappiamo noi e lo sa perfettamente anche il regista. Che però sceglie di ribadirlo con l'ultimissima battuta che è quasi una coltellata finale.
Si fosse fermato pochi secondi prima, il film sarebbe stato diverso. Avrebbe lasciato una qualche speranza, un qualche dubbio; avrebbe avuto, insomma, un finale tipico da cinema americano. Bong non si pone proprio il problema, perché la sua visione del cinema e dell'arte, nonché la cultura tipica del suo paese, gli impone di essere onesto. E di ricercare innanzitutto la realtà, anche in un film che è più allegorico che realistico. A cosa serve sognare quando sappiamo tutti che la realtà è ben più cinica e dolorosa?
Quel parassita chiamato speranza
Sono in tanti a chiedersi, sia durante che al termine del film, il significato del titolo di Parasite. Ed effettivamente anche solo la risposta che ci si può dare al riguardo, può dire tanto sul nostro modo di interpretare non solo la pellicola ma la vita stessa. Per alcuni i "parassiti" sono i Kim, che imbrogliano e si introducono nella casa sotto mentite spoglie per vivere un lusso che non potrebbero permettersi. Per altri ancora non possono che essere la vecchia domestica e suo marito, nascosto da tempo sotto la casa rubando cibo. C'è poi chi vede nei ricchi e stravaganti Park, così come i loro amici, i veri "parassiti" della società, rappresentazione della società capitalista e materialistica in cui noi tutti viviamo.
A nostro parere il titolo si riferisce però non a delle persone, ma ad un'emozione: la speranza. Diceva Nolan in Inception che il parassita più resistente è un'idea, e qui Bong non solo ce lo conferma, ma rilancia con un qualcosa di ben più specifico. Non si tratta solo di un'idea, ma di un'idea di speranza e ottimismo; l'idea che tutto, un giorno, sarà diverso e potrà essere finalmente migliore. Potrà essere quello che realmente ci meritiamo. È questo che ci permette di andare avanti, è questo che ci permette di sopportate qualsiasi cosa, è proprio questo che sta creando questo dislivello crescente tra ricchi e poveri(ssimi), quel famoso 1% della popolazione che detiene metà della ricchezza di tutto il mondo.
Possiamo provare a ribellarci, possiamo provare a imbrogliare, possiamo anche semplicemente lavorare duro; la verità è che l'unica soluzione possibile sarà sempre e solo sognare e sperare di diventare un giorno esattemente come loro. È proprio per questo motivo che guardando Parasite si ride e ci si appassiona, eppure quello che rimane è un profondo senso di tristezza e angoscia. È proprio per questo motivo che non c'è modo migliore, e più "giusto", di concludere un decennio cinematografico fantastico: ricco di contraddizioni ma anche di capolavori. Esattamente come questo firmato da Bong Joon-ho.