Presentato in concorso alla 73esima Mostra del Cinema di Venezia, Jackie di Pablo Larrain cerca di scoprire chi fosse la donna dietro l'icona Jackie Kennedy: simbolo di uno splendore irraggiungibile, vera e propria regina del popolo americano, la moglie del presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy è considerata da alcuni vetta massima di stile ed eleganza, da altri una persona superficiale, per altri ancora una donna scaltra dall'ottimo intuito politico. Chi sia stata davvero non lo sa nemmeno il regista, che ha chiesto a Natalie Portman non un semplice ritratto, ma la creazione di un'atmosfera, la ricerca di una sensibilità femminile unica e misteriosa da imprimere su pellicola.
Abbiamo incontrato Larraín al Lido, dove ci ha parlato, in una lunga intervista, del suo settimo film, candidato a tre premi Oscar, il primo con una protagonista donna.
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La Casa Bianca e i Kennedy: lavorare tra realtà e finzione
Perché ha deciso di ambientare gran parte del film in spazi chiusi e soprattutto negli interni della Casa Bianca?
È un labirinto: lo spazio fisico ha un significato psicologico. La Casa Bianca non è un edificio come gli altri. Abbiamo dovuto ricostruire alcune parti, non potevamo ricostruirla integralmente, quindi abbiamo dovuto scegliere su quali stanze soffermarci. I posti che sono finiti del film sono un'estensione dello stato emotivo della protagonista, della sua elaborazione del lutto. È un film su una donna: ho fatto sette film e sei si concentrano su personaggi maschili, questa è la prima volta che mi immergo negli occhi di una donna. Credo quindi che ogni posto fisico sia un'estensione della sua mente.
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Perché ha scelto di ricostruire la trasmissione televisiva in cui Jackie Kennedy mostra la Casa Bianca al pubblico?
Ho scelto di ricostruire le apparizioni televisive perché rappresentano lo splendore: sono state girate due anni prima dell'omicidio, nel 1961. Jackie Kennedy fu criticata per aver fatto ristrutturare la Casa Bianca. Per spiegare agli Americani perché lo aveva fatto, girò quel video, raccontando come il denaro per i lavori provenisse da finanziamenti privati, e allo stesso tempo mostrando per la prima volta al mondo cosa ci fosse all'interno della Casa Bianca: nessuno aveva mai visto i suoi interni prima di allora. In quel momento era al suo massimo splendore: ha sempre descritto quei giorni come il momento più felice della sua vita. Mostrare quel programma era necessario per far capire il suo percorso: è in perfetto contrasto con quello che è accaduto dopo, è un paradosso. Il cinema è fatto di paradossi: mi sembrava interessante mostrare quel momento perché a un primo impatto si potrebbe pensare che Jackie Kennedy fosse una persona superficiale, che si preoccupava solo di arredamento, moda e vestiti, ma se la si guarda con attenzione si scopre una donna brillante, con un grande intuito politico, che parlava quattro lingue, tra cui un perfetto spagnolo, una donna molto sofisticata e misteriosa. E il cinema è fatto anche di mistero: ho letto una montagna di biografie e articoli, visto programmi televisivi e film, un'intervista che fece con Arthur M. Schlesinger Jr., registrata, e ascoltando i nastri la sua voce sembra tranquilla, ma, anche dopo tutta questa ricerca, non so chi fosse davvero Jackie Kennedy. E credo che questa sia la chiave di lettura del film: il mistero, impossibile da rivelare completamente, di questa donna. È il pubblico che, guardando il film, completa la sua storia.
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La famiglia Kennedy come ha accolto questo film?
Abbiamo fatto ricerche per diversi mesi, ma la nostra documentazione si è fermata a quello che è stato pubblicato. Non ho voluto parlare con i discendenti: faccio film, non documentari. Ho trattato l'argomento con rispetto ma volevo essere libero. Non è stato necessario parlare con la famiglia Kennedy. Probabilmente per loro è molto doloroso rievocare quei ricordi: non volevo ferire nessuno. Li rispetto molto, quindi credo sia stato meglio così. Con noi sono stati molto disponibili: ci hanno dato diverso materiale, anche il Governo Americano ha collaborato, e non hanno mai messo bocca sulla sceneggiatura, non ci hanno posto nessun limite. Ci hanno fornito tutti i dettagli della ristrutturazione, fatta ad opera di un designer francese, e le planimetrie dell'edificio. Ogni ambiente è ricostruito esattamente come è nella realtà, perfino le tende gialle che si vedono sono fatte dello stesso tessuto originale. Se vorranno vedere o no il film è una loro scelta. Io ho semplicemente cercato di fare un film pieno di umanità, non ho realizzato la pellicola pensando che potesse essere un insegnamento. Odio gli insegnanti. Per questo non sopporto chi scrive critiche: cerca di insegnare al pubblico come vedere un film. Recentemente ho aperto un giornale e ho letto la prima riga di una recensione, diceva: prima di tutto le cose buone. Ho chiuso immediatamente il quotidiano. Se c'è uno scambio, mi fa piacere confrontarmi con qualcuno a cui un film non è piaciuto, magari mi aiuta a riflettere su qualcosa. Ma non sopporto chi vuole insegnare come guardare le cose, è così noioso: sono già andato a scuola.
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Jackie: la donna dietro l'icona Kennedy
Come si è avvicinato a una figura così importante per il popolo americano?
Non sono americano e non lo sarò mai: non sarò mai in grado di provare quel patriottismo, non come per il mio paese e la mia bandiera. Sono nato in Cile, quindi il mio approccio a questo film non è stato patriottico: mi sono concentrato su questa donna incredibile, che ha dovuto affrontare delle circostanze straordinarie. Sono stato fortunato ad avere un'attrice come Natalie: continuavo a dire, prima di girare, che sì, è vero, Jackie aveva un modo specifico di parlare, fatto su cui lei ha lavorato in un modo magnifico, ma a me interessava molto di più trasmettere qualcosa che non si può davvero trovare con la recitazione o le scene, cercavo un'atmosfera. Quando qualcuno che è così noto, come Natalie, interpreta una figura ancora più conosciuta, come Jackie Kennedy, devi trovare il modo di bilanciare il tuo ritratto, in modo che sia credibile. A un certo punto dovresti essere in grado di dire: non so dove finisce Natalie e comincia Jackie. Per il mio film precedente, Neruda, mi sono trovato di fronte allo stesso problema, con la differenza che è nella mia lingua e parla di uno dei nostri eroi nazionali. Il mio approccio in questo caso è stato quindi ancora differente: ho dovuto trovare il mio lato femminile e per farlo ho parlato molto con mia madre e con persone che hanno vissuto quell'epoca, soprattutto donne. Credo che per me la sfida più grande sia stata proprio trovare una sensibilità femminile. Per questo ho chiesto a Mica Levi di scrivere la musica: una compositrice mi sembrava la scelta più giusta.
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Perché ha scelto di raccontare la storia di Jackie Kennedy?
Questa donna è stata in grado di destrutturare e allo stesso tempo rinforzare l'eredità di John F. Kennedy: lui è morto prima che gran parte del suo programma politico fosse messo in atto e lei in qualche modo ha protetto ciò che Kennedy aveva lasciato. In questo modo lo ha reso una leggenda e facendo questo è diventata lei stessa una leggenda, un'icona, una donna che tutti conosciamo. Una donna avvolta da tanti strati e paradossi. Credo che il film parli dello splendore: puoi cadere molto in basso solo quando parti da altezze elevate. Se cadi a terra mentre cammini è una cosa, se cadi mentre sei su un aereo è un'altra. Questo è esattamente ciò che è accaduto ai Kennedy: per gli Americani erano diventati come una coppia di reali, prima di Jackie l'America non aveva mai avuto una regina.
Come ha trovato il modo giusto per raccontarla?
Tutti abbiamo visto film e documentari sui Kennedy, si possono leggere le dichiarazioni ufficiali, in cui si afferma "il presidente Kennedy fu ucciso dopo essere stato colpito da un secondo proiettile, sua moglie, Jackie, 34 anni, era seduta accanto a lui". Quando ho letto questa dichiarazione mi sono detto: perché accanto a lui? Non possiamo analizzare l'accaduto sedendoci accanto a lei e vederlo attraverso i suoi occhi? Abbiamo cambiato il punto di vista, per questo abbiamo girato le scene dell'assassinio così da vicino, perché lei era proprio lì. Conosciamo benissimo i fatti di quei cinque giorni, i libri di storia americani sono pieni di dettagli, con orari precisi, ma non sappiamo nulla di cosa sia realmente successo una volta che Jackie si è chiusa la porta della Casa Bianca alle spalle. Nessuno lo sa. Nel film abbiamo cercato di mettere il naso nella sua intimità e, siccome non sappiamo cosa si accaduto davvero, abbiamo dovuto immaginarlo. È qui che entra in gioco il cinema: questo non è un film biografico. Dopo averlo fatto non so chi fosse davvero Jackie Kennedy ed è proprio questa la cosa che mi ha affascinato di più: è stato come guardare una montagna.
Come avete lavorato sul personaggio con Natalie Portman?
Per Natalie non è stato facile, ma ha portato grande sensibilità al personaggio. Ricordo che all'inizio delle riprese, durante le prime scene, era lontano dalla telecamera: dal primo giorno ho capito che avremmo dovuto avvicinarci sempre di più a lei. Natalie è in ogni scena del film, tranne quando guardano l'assassinio di Oswald.
Politica e libertà artistica
Lei ha avuto grande libertà per questo film: è soddisfatto?
Cerco di fare i film che amo e poi non li riguardo mai: in America sono stato a un tributo dove hanno mostrato delle scene dei miei film ed è stato spaventoso. Non riesco riguardarli, nemmeno alle première: dopo i saluti non resto mai in sala. Non posso. Non ce la farei a vedere le reazioni del pubblico durante la proiezione. In genere mi nascondo. Cerco semplicemente di essere spontaneo e amare il mio lavoro. Sono fortunato perché spesso, facendo film come questo, non si ha il controllo artistico sulla pellicola, mentre io l'ho avuto: è stato un regalo. Ho potuto scegliere cosa girare e cosa tagliare: posso dire con piacere che è un mio film. Mi sono trovato in situazioni in cui ho capito che, girando un film in America, non avrei avuto il controllo e ho detto: arrivederci. Preferisco stare a casa e girare film in spagnolo. Perché fare un lavoro del genere se qualcuno ti dice cosa fare?.
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Dopo No e Neruda torna a parlare di politica: com'è stato raccontare un punto di vista diverso?
Neruda si svolge tra il 1947 e il 1949, la Seconda Guerra Mondiale era appena finita e il Comunismo vitale, è ambientato dieci anni prima della Rivoluzione di Cuba, Che Guevara era ancora in giro a fare i suoi viaggi con la moto e Fidel Castro era uno studente. La storia di Neruda finisce con l'elezione di Allende come presidente. Poi c'è stato l'avvento di Pinochet. Erano persone che credevano nei loro sogni. I Kennedy invece erano in conflitto con Castro, ma anche loro avevano un sogno: semplicemente era un sogno differente. È un altro punto di vista. E credo che, anche se il Comunismo a un certo punto ha fallito, il mondo avesse bisogno di quegli ideali, perché ci hanno permesso di capire diverse cose. È interessante come questi film possano comunicare tra loro: si può trovare della bellezza in entrambe le posizioni. Quando voti poi devi scegliere: ma questo è un altro problema.