Una mano nera che si allunga, sinuosa e mortifera, sfiorando l'innocenza perduta di un mondo sull'orlo del tracollo. È di immediata lettura la svolta di Robert Eggers per il suo Nosferatu: generare l'orrore attraverso una dichiarazione d'intenti che parta dalla società (e quindi dalla sostanza), e non dall'occulto (e quindi non dall'inspiegabile). In questo senso, e mantenendo la giusta distanza verso le precedenti versioni (Murnau ed Herzog), pur restandone debitore (soprattutto verso il capolavoro del 1922) il regista sceglie la strada dell'astrattismo estetico per spiegare - rivelandolo poco a poco - il male assoluto.
Nel farlo, tra suggestioni e soggezioni, Eggers punta alla veridicità di un mondo "ispirato da una ricerca profonda", come spiega Willem Dafoe, durante la nostra intervista. Al suo terzo film con lui, l'attore spiega quanto Eggers lavori "in modo dettagliato, perché ha un grande amore per la storia. È appassionato. Tutti i suoi film hanno una qualità personale, perché trattano argomenti di cui è ossessionato", e prosegue, "Eggers progetta le inquadrature, e sono piuttosto complicate. Non c'è una copertura convenzionale, sono inquadrature lunghe e fluide. Forniscono una struttura, e al loro interno c'è un impulso infinito. Sono film autentici".
Nosferatu: video intervista a Willem Dafoe
Incontriamo Willem Dafoe diversi giorni prima dell'uscita al cinema di Nosferatu, nel pieno della promozione. Ci accoglie sorridente, in una stanza d'albergo al centro di Roma. Cinematograficamente parlando, la pellicola di Eggers è un'opera(zione) rilevante: l'utilizzo dell'ombra, dosata dalla fotografia di Jarin Blaschke, e poi l'adiacenza musicale di Robin Carolan. Il regista sceglie il non-morto per farne un'allegoria versatile: simbologia del male possedente, indotto dagli stessi uomini (la firma di un contratto, da cui parte l'azione), e dominante di un'epoca dubbia e tormentata (che ricorda proprio il 1922, ma questo è un altro discorso), in cui la verità è relativa.
In questo senso, il Professor Albin Eberhart Von Franz di Willem Dafoe ha un ruolo fondamentale: alchimista e luminare che cerca la verità dietro l'apparenza. "Certo, è una domanda semplice", continua l'attore, quando chiediamo se oggi la verità sia un elemento sottovalutato, "Oggi la verità è scivolosa, anche solo per il modo in cui le persone ricevono le informazioni".
Il Conte Orlok e le paure odierne
Chiaro, fin dalle prime scene, quanto Eggers sia in un certo senso tanto suggestionato quanto incuriosito dalla silhouette leggendaria di un vampiro che, aspirando all'amore e alla civiltà, prova a mutare la sua forma, avvicinandosi a una mortalità raggelante e, forse, bramata. Suggestione, curiosità e, da parte dell'autore, anche un'allegoria: il Conte Orlok, quando è in scena, sembra quasi trasfigurare tutte le paure moderne. Ma qual è la grande paura di Willem Dafoe? "Non ho particolari fobie... ma ho paura del mio corpo che crolla e invecchia, oltre ad aver la paura di morire".
Il regista di The Lighthouse, per oltre due ore, sembra accarezzare l'oscurità. Una struttura che, secondo Dafoe, ha un influenzato in parte il lavoro sul set. "Il mio personaggio è mosso dalle sue azioni, riprese dalla cinepresa. Quando la macchina da presa se ne va, tu sei ancora lì, con quell'atmosfera. Ed è un atto di volontà tenere dentro certe sensazioni. Devo dire che ho scoperto molte cose sull'occulto e l'alchimia. Ho imparato cose che non dimenticherò mai. Ci sono collegamenti tra i sistemi di credenze antiche con quelle odierne". A proposito di contemporaneità, chi o cosa è, oggi, Nosferatu? Dopo una risata, Willem Dafoe ci dice: "Potrei fare qualche nome, ma non lo farò...".