Arriva alla fine di un weekend tutto italiano, Normal di Adele Tulli, terzo film di casa nostra ad essere presentato nella sezione panorama del Festival di Berlino 2019, dopo Dafne di Federico Bondi e Selfie di Agostino Ferrente. A differenza dei suoi precedenti lavori, 365 without 377 e Rebel menopause, documentari più classici per forma e linguaggio, con Normal, Adele Tulli sceglie un flusso di coscienza per immagini, immortalando le più "normali" scene di vita quotidiana, dall'infanzia all'età adulta, dalle bimbe che vogliono truccarsi da principesse ai bimbi che corrono in moto fino ad addii al nubilato, corsi prematrimoniali, concorsi di bellezza e matrimoni. Un atlante - come ci viene spiegato in questa intervista ad Adele Tulli* - nelle norme, gli stereotipi, le convenzioni di genere nell'Italia di oggi.
Il 2015 e il dibattito sul Gender
È il 2015 quando, mentre Adele prepara la sua tesi di dottorato dal titolo Visible Resistance sui movimenti femministi e le lotte delle donne per le pari opportunità, il dibattito politico sul gender si fa sempre più acceso e caldo: "in Italia questa parola "normale", naturale, tradizionale era molto presente nel dibattito politico, quindi dato il clima che si respirava in quegli anni mi è sembrato abbastanza naturale tentare di articolare una riflessione su quali sono queste convenzioni, queste norme di genere che influiscono in qualche modo sul nostro agire quotidiano" spiega la regista.
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Comizi d'amore
Se l'Italia infervorata dalla teoria del gender ha fatto da motore per la realizzazione di Normal, sono le conversazioni ed i viaggi di Adele ad averle dato l'ispirazione giusta oltre ad un maestro sempre presente, Pier Paolo Pasolini :"il punto di partenza inevitabile è Pasolini e il suo Comizi D'Amore. Ho fatto poi tantissimi viaggi prima di scrivere il film, girando per l'Italia da nord a sud, con persone sconosciute. Usavo bla bla car per viaggiare con estranei e quelle conversazioni sono state il motore per costruire l'idea, la ricerca e lo sviluppo del film, per immaginare contesti"
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Il cinema in quanto cinema
Nessuna voce fuori campo, nessun sottopancia, nessuna intervista, solo musica e scene di vita ordinarie e straordinarie. Adele Tulli spiega a fondo la sua scelta stilistica e come l'ha posta in essere: "Il mio tentativo con il film è stato di provare a usare il cinema in quanto cinema e quindi non fare un documentario tradizionale ma usare le immagini per articolare il racconto. È un film che cerca di pensare per immagini, di riprodurre il movimento del pensiero attraverso l'uso delle musiche, delle immagini e del montaggio. Non essendoci una narrativa lineare, una storia di un protagonista che raccontiamo dall'inizio alla fine, i messaggi del film sono portati avanti dalla forma in cui viene raccontato".
Non è un film ideologico
Nel suo essere italiano, Normal riesce ad essere internazionale poiché le dinamiche di genere coinvolgono tutti. Ne è sicura la regista che punta sul suo background italiano come valore aggiunto: "E' importante che questo film l'abbia fatto in Italia perché essendo italiana so comprendere e negoziare le dinamiche socio-culturali che mi circondano e penso di essere più in grado di analizzarle e rifletterci perché parte del mio background. E sul pubblico straniero poi aggiunge: "Essendo fatto per associazioni, il film invita lo spettatore a fare altrettanto e spero possa comunicare con un pubblico che non è solo italiano. Le dinamiche di genere e le convenzioni sociali vanno al di là dei confini geografici".
Con Normal, Adele Tulli non offre soluzioni, né opinioni o tantomeno una tesi da sposare o rinnegare. La regista lo ripete varie volte quasi per assicurarsi che il suo intento sia chiaro: "Questo film però è volutamente molto aperto, spero non venga letto come pedagogico, ideologico, invita alla riflessione in modo trasversale, oltre i confini nazionali. Una scena finale poi colpisce perché spiazza e quasi ribalta la visione di ogni spettatore. Adele Tulli la commenta cosi: "L'uso di alcune scelte è voluto perché c'è il tentativo di creare uno spazio di confusione oltre che di riflessione per potersi interrogare. Il finale è un po' spiazzante volutamente, forse può essere letto come un corto circuito, una contraddizione. Il mio obiettivo era non finire con uno statement ma con un finale che ponesse interrogativi su come negoziamo ogni giorno il desiderio di normalità".