Recensione Identità violate (2004)

Il film, seppur assolutamente non sgradevole, soffre di continuo senso del già visto e manca probabilmente di una regia personale e di un po' di coraggio nelle scelte narrative.

Non sono chi penso di essere

Il tema dell'identità è assolutamente centrale nel cinema thriller sin dai remoti prototipi, soprattutto per quanto riguarda il concetto di doppia personalità. Dai gialli più convenzionali per finire a quelli più sofisticati e profondi, la possibilità che le persone che si hanno di fronte abbiano un lato oscuro di inconfessabile insanità è un archetipo indissolubile, al quale si è aggiunto, con la contemporaneità, il tema della molteplicità del sé e delle aumentate possibilità di fare propria la vita di un altro.

Identità violate fa sue tutte queste suggestioni per inscenare un serial killer-movie incentrato sulla figura di uno schizofrenico che colleziona stralci di vita altrui appropriandosi dei loro corpi, mutilandoli e acquisendone l'identità appunto. Ad investigare sul caso viene chiamata una federale dai modi piuttosto particolari(Angelina Jolie, in una buona prova di chiara ispirazione alla Jodie Foster de Il silenzio degli innocenti), apparentemente fredda e malvoluta dai suoi colleghi, ma determinata fino in fondo, anche perché...

Il plot, come si sarà notato, concede veramente molto poco al rinnovamento e si affida al sempre produttivo ambiguo confronto attrattivo-repulsivo tra agente e omicida e ad un cast nel complesso più che soddisfacente: dalla già citata Jolie al sempre bravo Ethan Hawke, il convincente Kiefer Sutherland e il rigido Olivier Martinez. Purtroppo però il film non decolla mai del tutto e dopo aver fatto involontariamente ed inevitabilmente comprendere chi è il serial killer ad un pubblico mediamente ferrato sul genere, D.J. Caruso e il suo fido sceneggiatore Jon Bokenkamp cercano anche nei modi più farraginosi possibili di portarli fuori strada, con dubbi risultati, almeno sotto il profilo della suspance.

Il film quindi, seppur assolutamente non sgradevole, soffre di continuo senso del già visto e manca probabilmente di una regia personale e di un po' di coraggio nelle scelte narrative. Caruso, regista semi-esordiente laureato alla Pepperdine University ha discreto occhio, buona tecnica e ottimo curriculum, ma sconta un po' la sua lunga formazione televisiva (premessa l'elevata qualità media delle serie televisive americane). Molto molto debole il finale in cui il farsesco prende il sopravvento e si rischia fare dimenticare alcune buone cose viste nella prima ora.