Recensione Il pane nudo (2005)

Il film di Benadhj non convince perché manca di un pathos emotivo che travolga, resta ingrigito dal grigiore che racconta e non fa mai esplodere i suoi personaggi.

Non è mai troppo tardi

Tratto dall'omonimo romanzo autobiografico del marocchino Mohamed Choukri, che tanto sdegno ha suscitato nei Paesi arabi, dove è stato bollato come libro della vergogna e del peccato e per questo bandito, Il pane nudo è la drammatica storia di una vita consumata per vent'anni tra estrema povertà ed ignoranza, prima di essere salvata dal potere della scrittura. Molti i temi tabù toccati dal libro, pubblicato per la prima volta nel 1972 in Inghilterra, che ne hanno determinato la censura, caduta solo nel 2000, da parte delle correnti oltranziste del mondo arabo: violenza, sfruttamento minorile, pedofilia, omosessualità, prostituzione, traffici illeciti. Ma la storia di Choukri è soprattutto un grido di speranza, un'esortazione a non lasciarsi sconfiggere dalla disperazione, perché non è mai troppo tardi per cambiare le cose, per dare un senso alla vita e trovare una via di fuga dalla miseria e dal dolore. Oggi, questo racconto così appassionato, ormai un classico della letteratura maghrebina, è diventato un film, grazie al regista algerino Rachid Benhadj e all'italiana A.E. Media corporation che l'ha prodotto.

Il film parte dall'orrore di un'infanzia impossibile, quando, sporco e vestito di stracci, il piccolo Mohamed si aggira per le vie di Tangeri, rovistando nei bidoni della spazzatura degli occidentali colonizzatori, alla ricerca di avanzi di cibo che sfamino sé e la sua famiglia. Negli occhi l'immagine di un padre padrone che uccide senza pietà il fratellino, perché smetta per sempre di piangere, perché non urli più, disperato, che ha fame. Mohamed cresce con questa pietra nel cuore, costretto a subire le angherie di quell'uomo che tanto odia, che stupra sua madre e lo costringe a lavorare, sottopagato, per poi rubargli i pochi soldi che guadagna e spenderli tutti per ubriacarsi. Nella sua adolescenza c'è ancora spazio per i sogni, che hanno tutti i contorni di una donna dalle forme rotonde, ma la realtà è comprare il corpo di una prostituta per scoprire qual è l'odore del piacere. Nel Marocco degli anni Cinquanta, quello delle prime contestazioni verso quell'occupazione coloniale che sta mettendo il paese in ginocchio, Mohamed diventa uomo, scopre l'amore, ma non è in grado di credere in un suo futuro, e, a causa di una retata durante una sommossa, finisce in prigione. Qui imparerà a leggere e a scrivere, una conquista che lo tirerà fuori dall'ignoranza e lo porterà nel cimitero dov'è sepolto suo fratello, per scrivere, accanto alla sua lapide, la sua straziante storia.

Rachid Benadhj, il regista di Mirka e de L'albero dei destini sospesi, ha creduto fortemente in questa storia, l'ha adattata per il grande schermo con l'aiuto dello stesso Choukri, morto una settimana prima dell'inizio delle riprese, e l'ha portata in giro per i festival di tutto il mondo per farla conoscere ed amare dal pubblico. Purtroppo però il film è poco riuscito: troppi i personaggi solo abbozzati, tirati in ballo e poi dimenticati, troppo il tempo riservato all'immagine di una miseria che deriva essenzialmente dal contrasto tra il benessere, l'abbondanza degli occidentali e la povertà dei disgraziati marocchini (ci sarebbe bastata anche solo la sequenza del piccolo Mohamed che lecca dall'asfalto il latte caduto ad un'elegante signora, tagliandosi le labbra con le schegge di vetro della bottiglia frantumata, per provare vergogna), a discapito di un approfondimento reale delle emozioni che si agitano dentro il protagonista, che resta sempre un po' distante, tra sogni al ralenti (dalla regia francamente imbarazzante) ed espressioni alienate che non riescono a dar conto fino in fondo dell'odio nei confronti di un padre assassino o della meraviglia per le scoperte della crescita. Il film di Benadhj non convince perché manca di un pathos emotivo che travolga, resta ingrigito dal grigiore che racconta e non fa mai esplodere i suoi personaggi. Le immagini più affascinanti (la prigione-caverna che fa da lavagna all'istruzione del protagonista) e i momenti più interessanti (la scoperta salvifica della scrittura) arrivano troppo tardi, quando il film sta per finire, quando è già stato raccontato tutto il dolore e non c'è più il tempo per illuminare il riscatto dello sfortunato protagonista.