Sono pochi i registi che riescono a coniugare il "genere" (e ne ha affrontati tanti, nella sua già più che decennale carriera) e una forte impronta autoriale, come fa Nicolas Winding Refn. L'ultima opera del regista danese, che segue il successo planetario del suo Drive, è l'ennesima prova delle sue qualità; ciò, nonostante un impatto meno immediato rispetto al più celebrato predecessore, e una voglia, evidente, di non adagiarsi su schemi sicuri e collaudati. Un film che, sotto le sembianze di noir d'azione, è in realtà una ricognizione sull'animo umano e sul desiderio di vendetta, sul ciclo immutabile e apparentemente indistruttibile della violenza (che chiama altra violenza) sulla voglia di espiazione che diventa desiderio di morte e (auto)distruzione.
Dopo la presentazione in concorso all'ultimo Festival di Cannes, dove l'accoglienza è stata meno entusiasta del previsto (e i premi non sono arrivati) Solo Dio perdona si prepara comunque a sbarcare nelle nostre sale. A presentarlo, in un incontro stampa ricco di elementi stimolanti, lo stesso regista danese, di fresco ritorno dalla Croisette.
Nonostante i toni da festival, questo film ha molti richiami al cinema d'azione di serie B, in particolar modo a quello italiano. E' una scelta voluta?
Nicolas Winding Refn: Io amo il cinema italiano, a cominciare dallo spaghetti western. Mi sarebbe piaciuto molto farne uno, ma purtroppo non sono italiano: così ho deciso di andare a Bangkok e, con un film girato lì, richiamare un po' quello stile. Forse anche per il titolo, inconsciamente, mi sono ispirato un po' a Dio perdona... Io no!. Ciò che mi piace molto di quei film è il fatto che presentino una realtà estremizzata, surreale, ma al contempo con più sottotesto psicologico rispetto a quelli americani.
Forse ha più assonanze con quelli italiani. Ma un'altra mia fonte di ispirazione sono le fiabe: uno dei più grandi autori di fiabe, Hans Christian Andersen, viene proprio dalla Danimarca. E' un genere per cui ho sempre avuto un forte interesse, ancor più ora che ho dei bambini.
Lei, in passato, ha detto di aver sempre voluto fare un film sulle donne, e di essere invece finito a girare pellicole su uomini violenti. Come mai?
Forse è la donna che è dentro di me! Tendenzialmente gli uomini non mi piacciono, non mi piace fare quello che fanno loro, non mi piace andare nei locali di striptease, giocare a poker, bere birra. Mi piacciono di più le donne e quello che fanno: forse è per questo che faccio film su uomini con comportamenti violenti... però sinceramente non so, non saprei dare una risposta precisa alla domanda. Alla fine, credo di fare film su uomini violenti perché io sono un uomo; la mia fantasia, però, è quella di fare un film sulle donne, e credo che quando sarà il momento finirò per farlo.
A me piacciono tutti i filmaker e tutti i generi di film. Siamo figli di quello che ci ha nutrito, di ciò con cui cresciamo, che si tratti di film, libri o musica: c'è un canale che ci riporta sempre alla nostra fonte di ispirazione. Io amo Kurosawa, ma anche Takashi Miike, Seijun Suzuki, Yasujiro Ozu e in generale tutto il cinema asiatico. E' un cinema che sento in un certo senso alieno, essendo io uno straniero: guardare quei film per me è come volare, viaggiare nello spazio. Un film orientale che ho amato moltissimo, per esempio, è stato Le lacrime della tigre nera, una specie di western thailandese.
Quanta libertà le ha dato il successo di Drive per poter fare poi il film successivo?
Io ho sempre avuto la fortuna di avere una certa libertà creativa; proprio per questo, di solito, quando sono vicino a chiudere un accordo con un grosso studio, alla fine mi tiro indietro. Con le major, per i soldi devi rinunciare alla libertà creativa. Per me la libertà creativa conta di più, almeno per il momento la penso così. La libertà creativa devi conquistartela, perché ci sono sempre persone che cercando di influenzarti, cambiarti o farti fare quello che vogliono: lottare per la libertà creativa è quasi come andare in guerra.
Lui è forse uno dei cineasti più influenti della storia, molto più di quanto la gente sia consapevole. Specie negli anni '90 per noi era una leggenda, perché i suoi film non erano in circolazione, per vederli si doveva conoscere qualcuno che ne avesse una copia in VHS. Per me era una specie di sogno fare film come i suoi, lo vedevo come un cinema che andava contro le convenzioni, persino contro le leggi della cinematografia. Alla fine riuscii a vedere El topo e La montagna sacra, e capii che volevo fare quel tipo di cinema: un po' punk rock, qualcosa che non fosse cinema ma un'esperienza, una cosa che andava oltre. Questo mio ultimo film ha in comune con i suoi la particolarità della struttura: non è lineare, è a episodi, ci sono momenti diversi che insieme formano una storia. E' come entrare nella mente di una persona e vedere le immagini che lui vede. Ho avuto anche modo di conoscere personalmente Jodorowsky, e quella è stata l'occasione di dirgli grazie: e poi, quando mi sento comodo e mi pare di starmi adagiando su qualcosa, mi chiedo cosa farebbe Jodorowsky. Come le è venuta l'idea di coinvolgere Kristin Scott Thomas, che in genere vediamo in altri tipi di film?
Sapevo che lei voleva lavorare con me, che aveva letto la sceneggiatura di questo film e le era piaciuta; io non ho mai molti soldi per i miei film, e quindi ero alla ricerca di attrici meno conosciute. Però poi ho sentito che voleva lavorare con me, e a quel punto ci siamo incontrati a Parigi. Io la conoscevo per i ruoli classici in cui interpreta l'aristocratica o la donna fragile: però ho capito, alla fine della cena che abbiamo avuto, che non avrebbe avuto problemi a trasformarsi nella strega stronza. E' una donna molto sexy, e il rapporto madre/figlio del film ne fa un personaggio complicato, stratificato. Lei mi disse che non le piacciono i film violenti, estremi, disse di essere una donna di mezza età a cui piace leggere Oscar Wilde; però aggiunse che voleva comunque provare qualcosa di diverso. Io le ho detto "Ok, ma guarda che non ti pagherò molto"; lei ha detto che andava bene, ma che si sarebbe dovuta trasformare completamente nel look. Mi ha mandato una sua foto con i capelli lunghi e biondi, e io a quel punto ho detto "Salve, Donatella Versace!" Da lì siamo partiti. In gioventù, lei fu espulso dall'Accademia Drammatica Americana per aver sbattuto i pugni su una scrivania. Mantiene ancora qualcosa di quella personalità ribelle?
Ho un radicato odio nei confronti dell'autorità, che è ancora in me. Credo che il nemico della creatività sia il buon gusto: io voglio ancora distruggerlo. L'attitudine punk in me non è cambiata; forse ora sono solo diventato un po' più scaltro, magari ho un aspetto migliore. Ma credo si debba continuare a conservare quella parte ribelle di sé, specie se si vuole lavorare nelle arti: quella scintilla va conservata, quella che è creativa ma porta anche a "spaccare". Quando, a 24 anni, ho fatto il mio primo film, l'ho fatto con l'arroganza tipica della gioventù.
Un particolare che appare spesso è quello delle mani, lo vediamo in diversi punti del film. Che significato ha questo dettaglio?
La prima immagine che ho avuto, da cui poi è nato il film, era quella di qualcuno che si fissava le mani: non avevo idea di cosa significasse, ma immaginavo fosse una bella immagine per il film. Man mano giravo, mi sono poi reso conto che aveva a che fare con la specie maschile: se a un uomo togli le mani, lo privi anche del suo istinto violento, e a quel punto non può fare più nulla. C'è anche l'aspetto della sottomissione, quando si prega si mostrano le proprie mani, o si fanno gesti sacrificali: ho sempre avuto l'ossessione delle mani, da ragazzino me le proteggevo in situazioni di pericolo. C'è una similitudine anche con i genitali maschili, si può rappresentare l'impotenza e anche l'eccitazione sessuale attraverso le mani.
Amo Jacopetti, anche se so che nella sua carriera ci sono molti demoni, cose terribili che non si possono difendere. Ma sono anche un fan dei suoi film, di lui ho visto tutto ciò su cui potevo mettere le mani. E' simile a Jodorowsky nel suo concentrarsi sulle scene e sull'esperienza, in modo così diverso dal tradizionale.
Com'è stata la sua nuova esperienza a Cannes?
E' stata una bella esperienza, mi piace molto Cannes. Quando ho visto le reazioni al mio film, molto violente sia da parte di quelli che l'avevano amato, sia da coloro che l'avevano odiato, ho capito per la prima volta di aver fatto qualcosa di giusto. E' stato interessante sentire ciò che le persone pensavano del film, i significati che gli attribuivano, anche cose che io assolutamente non ci vedevo. Il cinema è arte, e l'arte è esprimere emozioni; ma il cinema in particolare è un'arte molto lucrativa, che può fruttare molti soldi. Perché ciò succeda si ha bisogno di uno spettatore passivo, che possa consumare il film più velocemente: in questo modo, però, il film passa attraverso lo spettatore, senza lasciare tracce. Io credo al contrario che il cinema debba penetrare il pubblico, scioccarlo, colpirlo violentemente: solo in questa maniera il film rimane dentro lo spettatore. Se ne ricorda, anche se si sente a disagio, arrabbiato, o disprezza ciò che ha visto. Anche se è la peggiore esperienza della sua vita, sarà comunque un'esperienza che rimarrà sempre con lui; così come capiterebbe se fosse la migliore.
Il mio prossimo lavoro sarà una serie televisiva, il remake di Barbarella. Poi, mi piacerebbe molto fare un horror... e anche una commedia.