Gli incubi di una madre e il genere horror che diventa, incubo dopo incubo, un dramma dai contorni mistici. Quante volte, poi, il cinema ha indagato la psiche umana, in preda alle ossessioni e agli istinti. Sullo sfondo, mentre sale il brusio di New York City, l'audace revisione del sogno americano, che rende schiavi chi cerca una nuova vita, una nuova realtà. Ma la realtà oggi è complicata, sconnessa, piena di buche. E lo capiamo fin dai primi istanti: nel film di Nikyatu Jusu si percorrono due strade che, solo alla fine, saranno destinate ad incontrarsi. Un ragno si muove tra le lenzuola, il terrore inizia a bruciare lentamente. Un terrore che, però, potrebbe avere degli aspetti famigliari, in cui ci ritroviamo immediatamente: quante volte, nel cuore della notte, ci siamo svegliati con il cuore a mille? È solo un sogno, ci ripetiamo. Ma i sogni possono essere delle spie di avvertimento, dei segnali. Ecco, lo spiazzante Nanny, che ha vinto il Grand Jury Prize al Sundance Film Festival e di cui vi parliamo in questa recensione, è esattamente l'attimo che precede (e preannuncia?) l'inizio della fine.
Un film che si lega ai canoni orrorifici moderni (Scappa - Get Out è la sua primaria fonte di ispirazione) ma che si svincola dal genere, mutando in un affresco socio-politico che acchiappa la dimensione degli immigrati irregolari, ma anche la disparità assistenziale e il Black Lives Matter, declinato però in arte fotografica. Forse un po' troppo, tutto insieme? Ci domandiamo via via che si costruisce il puzzle della brava Nikyatu Jusu, dimostrando infatti tutta la sagacia e tutta l'esagerazione narrativa di chi è al debutto. Un debutto comunque importante, prodotto dalla Blumhouse e targato Amazon Studios (a proposito, Nanny è in streaming su Prime Video), che rimarca quanto sia oggi fecondo l'estro intuitivo di nuovi autori e nuove autrici, in grado di accorciare le distanze visive e narrative. In Nanny è tutto sullo stesso piano (inclinato): la messa in scena, i personaggi, le intenzioni.
Il lato creepy e un dramma umano
Novantasette minuti in cui seguiamo, senza mai lasciarla, un'immigrata senegalese senza documenti di nome Aisha (Anna Diop) che, con estrema fatica, sta provando ad avviare una nuova vita a New York, qui rappresentata dalla regista come una sorta di contenitore invisibile in cui si incastrano speranze, deviazioni, apparenze. Aisha, come molte nella sua stessa condizione, trova lavoro come babysitter: dovrà prendersi cura della figlia di Amy (Michelle Monaghan) e Adam (Morgan Spector), ossia una ricca famiglia dell'Upper East Side. I turni sono lunghi, i pagamenti tardano e, come se non bastasse, Amy accusa nella casa delle strane vibrazioni.
Però il sogno americano ha un prezzo, e lei sta inseguendo la speranza di portare negli States suo figlio, che ha lasciato in Senegal. Stringe i denti, ci prova, scaccia via gli incubi e le visioni che sembrano perseguitarla. È qui che Nikyatu Jusu gioca con il creepy, mescolando Jordan Peele a David Lynch (e sì, potrebbe volare un po' troppo in alto), sfoderando il vero sgomento solo negli ultimi minuti, sorretti e dipendenti dal climax che li anticipa. Un climax oscuro, ansiogeno, turbato: il sogno di Aisha sembra minacciato da una forza mistica, tragica e ancestrale, mascherata da ammaliante sirena.
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Bye Bye, American Dream
Nanny, infatti, si inserisce perfettamente nella nuova concezione cinematografica indipendente: è un'opera in qualche modo sobria (al netto dei molti temi inseriti, che potrebbero stridere e far perdere il senso), agganciata ad una cornice abbastanza limitata, che si allarga verso gli spazi aperti solo quando si avvia alla sua naturale conclusione. Una conclusione, va detto, che lascia interdetti, spiazzati, folgorati. Il punto più spaventoso, dopo che la regia di Jusu ci suggeriva gli indizi, disseminati nella storia. Atrocemente, potrebbe essere l'unico culmine possibile, anche perché la riflessione doveva logicamente abbracciare gli abbagli dell'American Dream, di cui le luci di New York si fanno apice e allucinazione.
Quella Manhattan simile ad una sirena, che canta attirandoti nelle sue profondità, che inghiottono il mondo di chi è costretto a sacrificare la vita per un barlume di felicità. Su questa strada, la colonna sonora sincopata di Tanerélle e Bartek Gliniak, ripercussione diretta degli umori di Aisha. Tutto è come appare in Nanny, ciononostante tutto è diverso da ciò che sembra. Proprio come i miti e le leggende (africane), tanto sfuggenti e inquietanti. Ma Nanny, come detto, di sovrannaturale ha solo le intenzioni, e all'opposto finisce per proiettarci in una dimensione impensabile: la tragedia può impadronirsi della nostra vita quando meno ce lo aspettiamo.
Conclusioni
Concludiamo la recensione di Nanny rimarcando l'intuizione di costruire un horror senza troppi elementi tipici del genere, ma anzi spingendo poi la narrazione verso un dramma umano che riflette la dimensione degli immigrati irregolari che cercano il Sogno Americano. Ottima colonna sonora, interessanti i paralleli visivi e narrativi, ma sono probabilmente eccessivi gli elementi che sbracciano nella sceneggiatura.
Perché ci piace
- L'atmosfera.
- Anna Diop.
- La colonna sonora.
- Il parallelo tra la sirena e New York.
Cosa non va
- Se cercate un horror duro e puro, cambiate titolo.
- Nella sceneggiatura potrebbero esserci troppi elementi.