C'è un ossimoro formidabile al cuore della vicenda narrata in Museo - Folle rapina a Città del Messico: l'idea di una refurtiva dal valore inestimabile ma che, proprio per tale motivo, risulti contemporaneamente priva di valore. L'opera seconda del regista messicano Alonso Ruizpalacios, realizzata a quattro anni dal suo apprezzato debutto con Gueros, rievoca questa vicenda semi-paradossale a partire da un episodio realmente accaduto: il furto al Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico nel corso della notte di Natale del 1985.
Il film di Alonso Ruizpalacios, ricompensata con il premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Berlino 2018, si addentra pertanto in quei territori che potremmo definire stranger than fiction, dichiarando però fin dal principio di non voler riprodurre nei dettagli questo famigerato caso di cronaca. L'intento di Ruizpalacios sembra piuttosto quello di adoperare un soggetto tanto peculiare per tracciare un ritratto dei due autori del furto, e in particolare dell'ideatore del misfatto: Juan Nuñez, ovvero il più improbabile dei criminali.
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Una notte al museo con Gael García Bernal
Juan, che ha il volto da eterno ragazzo di Gael García Bernal, in effetti appare tutt'altro che un genio del crimine: non ha mai riportato risultati brillanti, è impantanato nella scrittura di una tesi di veterinaria che non vedrà mai la luce, vive ancora in famiglia e non è troppo stimato dai suoi parenti, con i quali non mancano tensioni e conflitti. Gael García Bernal è perfetto nell'esprimere l'amalgama di puerilità ed ambizione che si agita nell'animo di Juan, e che troverà una valvola di sfogo nel folle progetto organizzato dall'uomo in combutta con il suo migliore amico, Benjamin Wilson (Leonardo Ortizgris): penetrare nel museo di Città del Messico e, nella notte fra il 24 e il 25 dicembre, depredarlo di decine di reperti delle civiltà mesoamericane, per poi rivenderli a peso d'oro a commercianti d'arte.
Il furto al museo di Città del Messico, compiuto da Juan subito dopo una cena di Natale disastrosa in cui ironia e imbarazzo vanno di pari passo, è descritto da Ruizpalacios in una macrosequenza magistrale: un lungo omaggio a un classico del noir francese, Rififi di Jules Dassin, attraverso una scena totalmente muta in cui il silenzio diventa il principale veicolo di una suspense affidata interamente alle immagini. Il colpo al museo segna dunque la climax della prima parte di un film che, da quel momento in poi, prende un'altra direzione, trasformandosi in un racconto on the road che vedrà i due ladri in erba impegnati nel tentativo di 'piazzare' un tesoro che costituisce parte integrante della storia del Messico.
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Un atipico heist movie fra umorismo e malinconia
La natura da heist movie, infatti, è solo una delle componenti di una pellicola multiforme, in cui la vera tensione non va ricercata nell'impresa criminale di Juan e Benjamin (quest'ultimo anche voce narrante della storia), bensì nei conflitti fra Juan e i suoi parenti, a partire da una figura paterna - incarnata dal grande Alfredo Castro - che gli impone un implicito, logorante confronto emotivo e morale, e fra Juan e se stesso: un giovane uomo gravato dallo spettro del fallimento e disposto a tutto pur di dimostrare a se stesso le proprie capacità. Con il procedere del film, Juan aderisce sempre di più all'archetipo del loser per il quale il pubblico è portato a provare simpatia e commiserazione: specialmente quando il suo piano per guadagnare una spropositata ricchezza si rivelerà irrimediabilmente fallace, in seguito al faccia a faccia con il trafficante britannico Frank Graves (Simon Russell Beale).
È il "punto di rottura" che segna l'ennesima metamorfosi di Museo, da dramma on the road a commedia malinconica in cui il rapporto d'amicizia fra i due comprimari viene messo a dura prova, mentre tutti i punti fermi nell'esistenza di Juan sembrano crollare uno dopo l'altro, fra una nottata di spensierata ebbrezza in riva al mare e la coscienza di dover fare i conti con le proprie azioni. E tale resa dei conti arriverà in un finale amaro che tuttavia, a suo modo, costituisce anche un'apologia del potere della fantasia e dell'affabulazione su qualunque pretesa di ricostruzione rigorosa della realtà.
Movieplayer.it
3.0/5