Non faremo spoiler in questa nostra recensione di Monster, film disponibile in catalogo su Netflix che vede l'esordio nel lungometraggio di Anthony Mandler, regista con un gran curriculum di video musicali per Rihanna, Muse, Taylor Swift e tanti altri. Ci soffermeremo, invece, su un concetto fondamentale che questo legal drama vuole sottolineare nel corso di tutta la sua durata: il punto di vista. L'importanza dello sguardo nel cinema non è assolutamente un aspetto di banale importanza e, a dirla tutta, nemmeno totalmente innovativo, eppure non si può fare a meno di notare come Monster si adagi su quest'idea che caratterizza tutto il significato dell'opera. A partire dal protagonista fino ad arrivare allo stile scelto per il racconto, dalla maniera in cui la storia viene raccontata fino al senso finale del film: tutto è un'ode al potere dello sguardo e di come diversi occhi possano plasmare a piacimento la realtà. Se il cinema è l'arte della finzione, allora ogni spettatore vedrà un film diverso.
Colpevole o innocente
Steve Harmon è quello che si direbbe un ragazzo modello. Cresciuto in una famiglia benestante e con il sogno di diventare regista, Steve sembra avere tutte le carte in regola per finire il liceo con ottimi voti ed entrare in un'ottima università. Ma i suoi sogni vengono interrotti da un mandato d'arresto: Steve è accusato di essere complice in una rapina, conclusa con la morte del proprietario del negozio di alimentari. Il ragazzo viene portato in carcere con un'accusa pesante. Si terrà un processo per decidere se sia davvero un mostro (da qui il titolo del film) o un essere umano, ma non sarà una lotta facile. L'avvocato dell'accusa sembra avere tutte le carte a suo vantaggio: ci sono parecchi testimoni che confermano di aver visto Steve partecipare alla rapina e la difesa non sa come dimostrare il contrario. Steve si rende presto conto che la giuria lo sta già considerando un colpevole per principio e dovrà dimostrare, invece, la propria innocenza. Ma è davvero innocente? È un dubbio che assale lo spettatore e che definisce il maggior pregio del film: fino all'ultima sequenza, grazie a un racconto che alterna il presente del processo al passato della vicenda raccontata direttamente da Steve, anche lo spettatore, come un membro silenzioso della giuria, dovrà cercare di superare i pregiudizi e provare ad abbracciare un continuo ribaltamento del suo punto di vista.
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"I mostri non piangono al buio"
È una delle prime frasi che aprono il film, presentato attraverso una locandina che stimola lo spettatore a indagare sull'identità del protagonista. È chiaro che il film voglia usare questa storia per riflettere non tanto sulla realtà in sé, quanto sulla verità capace di essere multiforme. Il riferimento più alto presente nel film è in una lezione che il professore di linguaggio cinematografico dedica a Rashomon, il capolavoro di Akira Kurosawa. In questo film assistiamo alla stessa storia raccontata da più personaggi, ognuno con un punto di vista diverso della stessa vicenda tanto che, neppure alla fine del film, lo spettatore riuscirà ad avere un quadro completo della situazione. Lo stesso gioco, seppure in misura minore, avviene anche qui. I testimoni al processo danno la loro visione dei fatti, gli accusati sono convinti di un'altra versione, e così via ogni personaggio. Se le intenzioni sono nobili, il film preferisce cercare, a poco a poco, ma in misura sempre maggiore, di mettere da parte l'inaccessibile e il non detto prediligendo una chiara esposizione delle tematiche che vuole affrontare. In questo modo depotenzia parecchio la narrazione, rendendo il tutto un po' troppo didascalico e, in certe occasioni, persino non troppo avvincente. La voce fuori campo di Steve, che racconta la storia agli spettatori come se fosse una sceneggiatura di un film, è un'idea che da un lato funziona perché mette in mostra senza scrupoli la natura delle molteplici verità, ma dall'altro appiattisce il lato emotivo mancando una costruzione necessaria per arrivare al finale del processo in maniera soddisfacente. Non si dimostra una scelta vincente puntare così tanto su un discorso sulla molteplicità dei punti di vista per poi accontentarsi di svolgerlo in maniera superficiale. Questa superficialità si riconosce anche nel modo in cui il film tenta di donare alla vicenda una critica sul sistema di giustizia americano, sulle sue fallacie inserendosi anche in un discorso razziale: gli elementi ci sono, ma non vengono sviluppati a dovere, lasciando il tutto sospeso, senza mordente.
Grandi nomi nel cast
Molto buone le prove attoriali per un cast che riserva qualche sorpresa. Sono piccoli ruoli, secondari, ma Monster, realizzato nel 2018 nonostante sia stato distribuito solo ora, dimostra una volta di più il talento di John David Washington e di Jeffrey Wright. I due sanno davvero comunicare con il corpo, con i gesti e con gli sguardi, nonostante le poche battute che pronunciano nel corso del film. Non possiamo non menzionare il protagonista indiscusso, Kelvin Harrison Jr. che abbiamo visto recentemente nel ruolo di Fred Hampton ne Il processo ai Chicago 7, e che qui riesce a risultare credibile dall'inizio alla fine, seguendo uno spettro emotivo molto ampio. Da studente modello a sognatore, da accusato in tribunale che non deve abbassare lo sguardo fino ai momenti di debolezza all'interno della cella della prigione: la vera empatia del film si trova in questo ragazzo. Aiuta, in quest'occasione, la regia di Anthony Madler che predilige uno sguardo da cinema indipendente, la camera a mano che segue i personaggi e una messa in scena semplice ed efficace. A volte paga dazio in qualche scelta indulgente di troppo (davvero troppi i momenti in cui vediamo le fotografie e i video in bianco e nero che scatta Steve), ma nei momenti migliori (come la scena finale) sa regalare qualche momento d'effetto.
Conclusioni
A conclusione della nostra recensione di Monster vogliamo soffermarci sugli aspetti positivi del film. Questo legal drama disponibile su Netflix ha un’ottima idea nel voler riflettere sulla molteplicità dei punti di vista e un buon cast che riesce a valorizzarne la vicenda. La regia, per quanto mostri alcuni dei limiti di un esordio al lungometraggio, è funzionale alla storia. Non sempre tutto funziona per il meglio: qualche ripetizione di troppo a livello visivo e una voce fuori campo invasiva tendono a spiegare troppo e sottolineare temi e argomenti del film che risultano, quindi, depotenziati e poco incisivi. Il finale funziona, ma si arriva senza una costruzione forte capace di sostenerlo in maniera sorprendente.
Perché ci piace
- Un buon cast che valorizza la vicenda, in particolare il protagonista Kelvin Harrison Jr.
- L’idea di partenza di moltiplicare i punti di vista per ricercare la verità.
- La regia sa mettere in scena egregiamente la vicenda.
Cosa non va
- Qualche ripetizione di troppo che rischia di allontanare lo spettatore.
- Molti argomenti sono trattati in maniera superficiale e la voce fuori campo tende a spiegare troppo, impedendo un’ottima costruzione emotiva per il finale.