Recensione Goemon (2009)

Il regista punta tutto sulla potenza visionaria del proprio stile, allestendo una serie di rutilanti sequenze, esteticamente spettacolari, ma lasciate fin troppo a loro stesse: la trama, già di per sé fondata su temi non particolarmente originali, si stempera in troppe diramazioni, privando in film della necessaria unità.

Molto fumo e poco arrosto

Quello di Goemon è un nome ormai noto non soltanto agli assidui appassionati di manga e anime, ma anche ai fruitori più occasionali del palinsesto televisivo degli ultimi anni: forse, però, non tutti sanno che il virtuoso della spada, compagno del ladro Lupin nella versione di Monkey Punch, dovrebbe in realtà rappresentare il tredicesimo discendente dell'originale Ishikawa Goemon, shinobi realmente esistito nel sedicesimo secolo. Una sorta di eroe popolare, definito il "Robin Hood giapponese" in virtù della generosità con cui era solito condividere il proprio bottino insieme ai più poveri, la cui scomparsa è ammantata di leggenda: alcuni sostengono che Goemon sia stato giustiziato dal crudele shogun Toyotomi Hideyoshi, dopo aver fallito nel tentativo di ucciderlo (a scopo di vendetta o per liberare il popolo dalla guerra, a seconda della versione a cui si vuole dar credito).

E sembra che Kazuaki Kiriya non abbia voluto scartare nessuna possibile interpretazione della vicenda del mitico ninja: amori, risentimenti, patriottismo, amicizia e rimpianto sono soltanto alcuni degli spunti gettati nell'enorme calderone della vicenda cinematografica, che fin dalle prime sequenze ci rende evidente come il regista giapponese non abbia cambiato registro rispetto al Kyashan di qualche anno fa. Molti avevano mosso aspre critiche al lavoro di Kiriya, colpevole di una gestione troppo approssimativa della trama e di un'eccessiva fiducia nella potenza visiva della pellicola: gli stessi limiti possono essere ravvisati anche in questo Goemon, che anzi si spinge ancora più in là sul fronte della cacofonia visiva, a cui non può certo corrispondere una gestione pacata e lineare della sceneggiatura. Se Goemon ci viene inizialmente presentato come uno scapestrato ladro di strada, idolatrato dal popolo e amato dalle donne, le cose si faranno infatti ben presto più complicate: non soltanto il ninja entrerà in possesso di una misteriosa scatola sulle cui tracce vagano senza successo gli sgherri di Hideyoshi, ma attraverso numerosi flashback veniamo a conoscenza dei trascorsi comuni di Goemon e dello shogun. Pare infatti che il volitivo sovrano abbia ucciso di propria mano Oda Nobunaga, mentore del nostro protagonista nonché del suo compagno d'infanzia, Saizo, ninja altrettanto abile ma ora al servizio della parte avversa.
Con un cast di questo calibro, è ovvio che molta dell'azione si sia focalizzata sui numerosi combattimenti, la cui spettacolarità concede larghissimo spazio alla totale inverosimiglianza, sottolineata da un uso della computer grafica non certo improntato al realismo, ma che anzi sembra quasi compiacersi della propria artificialità. La fotografia, anch'essa firmata da Kiriya, è tutta giocata sul contrasto tra l'orgia di colori saturi da cui siamo investiti nelle scene più concitate e la piatta oscurità degli scenari notturni e intimi: una differenza visiva che corrisponde a repentini cambi del ritmo della narrazione, tutt'altro che facili da metabolizzare, e che sono conseguenza dell'aver voluto comprimere in due ore (che non sono comunque poche) una trama articolata su troppi fronti. Chiaramente la prima preoccupazione del regista non è quella di tenere sotto controllo la storia, che, tra vertiginosi movimenti di macchina e scenari da pastiche nippo-occidentale, si sfilaccia in infinite propaggini, che non danno la possibilità di approfondire oltre lo stereotipo la caratterizzazione dei personaggi.

Ciononostante, la pellicola offre diverse sequenze esteticamente molto potenti e che, se considerate come un "a sé", possono rappresentare un esperimento riuscito. Il cinema non può però essere un semplice divertissement per gli occhi, un oggetto bello da guardare ma privo di struttura. Le doti visionarie di Kiriya, che delle proprie pellicole è artefice a tutto tondo, a partire dalla sceneggiatura e per finire con il montaggio, sono ormai assodate, ma resta da fare uno sforzo in più per concedere alla vicenda il giusto spazio, per dare vita ad immagini che siano espressioni di un significato, e non soltanto il significato di per sé.