Oh, full of scorpions is my mind, dear wife!
Fra le nebbie della brughiera scozzese, da una spessa coltre biancastra emergono le sagome del generale Macbeth, signore di Glamis, e di sua moglie Lady Macbeth. In un'atmosfera di ieratica solennità, che presenta i contorni ovattati e l'innaturale silenzio tipici di un sogno, si celebra il funerale del figlioletto della coppia, immersa in un lutto composto e trattenuto. Non c'è traccia di questo prologo nel testo di William Shakespeare, ma l'incipit del film di Justin Kurzel stabilisce fin dalle prime immagini i toni di un racconto costruito come una progressiva discesa nell'incubo.
C'è ben poco di realistico, in effetti, nel Macbeth diretto dal regista australiano (il suo secondo lungometraggio dopo il crime drama Snowtown del 2011, lodatissimo in patria), proiettato in concorso al Festival di Cannes 2015, accolto da un discreto successo in Gran Bretagna (mezzo milione di spettatori) e capace di spaccare in due la critica, con opinioni totalmente opposte a proposito della validità dell'approccio di Kurzel. Ma se il compito della grande arte è sempre stato quello di far discutere e di suscitare reazioni viscerali, è entusiasmante constatare, una volta di più, come il "barbaro non privo d'ingegno" continui ad arricchire il nostro immaginario e a parlarci attraverso i secoli.
Un cuore così bianco
A interpretare il ruolo di Macbeth, il nobile che, istigato dalla profezia di tre streghe, inizia a coltivare il proposito di salire al trono di Scozia, assassinando Re Duncan (David Thewlis), è l'attore tedesco Michael Fassbender in una delle due strepitose performance che ci ha regalato quest'anno: dal 21 gennaio, infatti, Fassbender sarà nelle sale italiane anche come protagonista del capolavoro Steve Jobs di Danny Boyle, in cui si cala nel ruolo del geniale ed egocentrico co-fondatore della Apple (una prova superlativa per la quale sembra aver ipotecato la candidatura all'Oscar come miglior attore). In Macbeth, al cinema dal 5 gennaio distribuito da Videa, al feroce antieroe di Fassbender si affianca la sensuale e spietata Lady Macbeth di Marion Cotillard, la quale fa risaltare appieno la gelida crudeltà della donna che spinge il marito all'omicidio, salvo poi farsi annichilire dal senso di colpa fino a sprofondare nella pazzia. Una coppia di attori prodigiosi, che nel 2016 ritroveremo sul grande schermo con un altro film diretto da Justin Kurzel, l'attesissimo Assassin's Creed.
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E l'alchimia fra i due interpreti, la fatale determinazione che guida i gesti di entrambi appaiono come elementi fondamentali della rilettura di Kurzel di una delle maggiori tragedie di Shakespeare. Una rilettura che, fin dalla presentazione della pellicola al Festival di Cannes, ha diviso nettamente la stampa fra chi è rimasto conquistato dalla poderosa messa in scena di Kurzel ("Un tragico capolavoro, che restituisce lo spettacolo di Shakespeare con tutta la sofferenza e la maestosità che merita", ha scritto Michael O'Sullivan sul Washington Post, e Guy Lodge su Variety lo ha definito "spaventosamente viscerale ed eseguito in maniera impeccabile") e chi, al contrario, ha rimproverato al regista una carenza di coraggio (la nostra Alessia Starace, dalle colonne di Movieplayer, pur riconoscendo alcune virtù del film ne ha sottolineato anche la "complessiva povertà concettuale" e la "regia poco ispirata", mentre Anthony Lane, sul New Yorker, ha criticato il carattere eccessivo di una messa in scena portata all'estremo).
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Shakespeare nostro contemporaneo
Reazioni polarizzate, insomma, come accade quasi inevitabilmente quando registi e sceneggiatori decidono di cimentarsi con il corpus teatrale shakespeariano. Del resto, la modernità straordinaria di William Shakespeare, la sua ineguagliata capacità di fascinazione e il posto occupato dai suoi personaggi nella cultura mondiale talvolta possono essere considerati armi a doppio taglio. Ciascuno, in fondo, conosce e ama (impossibile concepire il contrario) i drammi di Shakespeare; e Macbeth, così come Amleto, Otello, Romeo e Giulietta, Re Lear, Riccardo III, Prospero o Falstaff, porta con sé un retaggio da cui non è possibile prescindere: un retaggio letterario ma anche storico, artistico e, a partire dagli albori della settima arte, cinematografico. E all'atto pratico, come si può rendere ancora più 'attuale' un autore che già di per sé riesce a parlare alla nostra contemporaneità, travalicando il contesto storico/sociale in cui hanno preso forma i suoi capolavori? Come mantenere in equilibrio il rispetto per il testo di partenza e la necessità di tradurlo/tradirlo fino a farlo proprio?
Sono solo alcuni dei dilemmi che sorgono spontanei quando ci si trova di fronte a un adattamento di Shakespeare, e non soltanto per la sterminata quantità di trasposizioni fra cinema e teatro. La questione è che Shakespeare è stato assorbito a tal punto dall'immaginario collettivo, e ha avuto una tale importanza nello stabilire nuovi archetipi, che per ognuno di noi i suoi eroi e antieroi hanno assunto un differente valore culturale e sentimentale; e ognuno di noi, pertanto, porta nel cuore e nella mente il 'proprio' Macbeth, sulla base della sua sensibilità, ma anche delle precedenti incarnazioni del personaggio. Con Macbeth, è bene ricordarlo, si erano già confrontati Orson Welles, che dopo il suo innovativo allestimento per il palcoscenico (il Voodoo Macbeth del 1936, con un cast di afroamericani) nel 1948 portò la tragedia al cinema, sottolineandone la cupezza e la violenza; Akira Kurosawa, autore nel 1957 dello splendido Trono di sangue, rielaborazione di Macbeth in base ai principi del teatro No (e preludio al massimo capolavoro del regista, la sua rivisitazione di Re Lear in Ran); e Roman Polanski, con il suo disturbante Macbeth datato 1971.
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Un'ombra che cammina
Dopo oltre quattro decenni in cui sullo schermo non si era più visto alcun Macbeth degno di nota, il film di Justin Kurzel ha dunque l'indubbio merito di riproporre la vicenda del guerriero scozzese a una nuova generazione di spettatori. Ma a detta di chi scrive, la tenebrosa bellezza del Macbeth di Kurzel non risiede unicamente nel carisma dei due interpreti principali (e Marion Cotillard, lo ribadiamo, offre un raggelante ritratto di Lady Macbeth). Il regista, infatti, conserva l'ambientazione della tragedia shakespeariana e la fedeltà al testo originale (benché ovviamente ridotto per esigenze di durata), ma la sua versione di Macbeth è quanto di più lontano si possa immaginare da un polveroso accademismo. Fin dalle prime sequenze, il film sfodera la potenza ipnotica derivante da una messa in scena carica di fosche suggestioni: una messa in scena che rinuncia del tutto al naturalismo per calare il Macbeth di Fassbender in una dimensione atemporale dalle sfumature oniriche, in cui la realtà subisce un effetto di distorsione via via più marcato e opprimente.
In tale ottica, l'utilizzo della slow motion nelle sequenze di battaglia, la desaturazione dei colori, la studiata lentezza dei movimenti non rimangono al livello di un mero esercizio di stile, ma contribuiscono in misura essenziale a sancire l'impronta narrativa ed estetica di Kurzel: il sanguinario percorso di Macbeth come l'abbandono della concretezza del reale per lasciarsi abbracciare dalle spire soffocanti di un incubo ad occhi aperti. È Shakespeare stesso, d'altronde, a suggerire che il suo protagonista graviti all'interno di una sorta di sogno: un sogno in cui il "Grande Meccanismo" del potere (un tema ricorrente delle sue tragedie) assume connotati mostruosi. Jan Kott, uno dei massimi studiosi shakespeariani, ha osservato in proposito: "Nel Macbeth la storia è impenetrabile come un incubo, e come in un incubo tutti vi sprofondano. Si mette in moto il Meccanismo e poi se ne viene stritolati. Ci si inoltra nell'incubo finché esso non arriva alla gola". In questa sinistra atmosfera, le streghe diventano tre figure femminili, accompagnate da una bambina e da un neonato (il figlio morto di Macbeth?), che si materializzano a bordo del campo di battaglia come allucinazioni, espressioni di una silenziosa inquietudine. E perfino l'amplesso fra Macbeth e sua moglie, mostrato nel corso del primo dialogo fra i due coniugi, è privato di ogni traccia di erotismo, per evidenziarne invece la brutalità ferina che di lì a poco costituirà il motore del regicidio.
L'urlo e il furore
Il senso di ineluttabile astrazione dalla realtà, l'ossessione per il potere che si tramuta in sete di distruzione e in un selvaggio cupio dissolvi: è questa la cifra del Macbeth di Justin Kurzel, trasposizione vibrante e modernissima proprio per l'intima coerenza fra la poetica del regista e lo stile fiammeggiante del film. Il Castello di Macbeth (la vera location è Bamburgh Castle, nel Northumberland), che troneggia nelle nebbiose lande scozzesi, è assimilabile a un "luogo dell'anima", un imponente monumento alla solitudine del nuovo sovrano. La foresta di Birnam, che nel finale 'avanza' contro Macbeth, è un'immensa distesa di rami infuocati: la figura umana si è dissolta definitivamente, mentre al cospetto di Macbeth si spalanca un inferno di fuoco e di sangue. E nell'epilogo, durante il duello conclusivo fra Macbeth e la sua nemesi Macduff (Sean Harris), i filtri rossi della fotografia di Adam Arkapaw suggellano il carattere quasi metafisico di un'opera arditamente visionaria.
È il momento in cui la messa in scena assume un'intensità abbacinante, facendosi veicolo della narrazione ancor più dei versi del Bardo. "Qui tutti grondano sangue, vittime e assassini. Il mondo stesso gronda sangue", scrive Jan Kott; "Nel Macbeth il sangue non è soltanto una metafora: è qualcosa di materiale e di fisico, qualcosa che cola dal corpo degli uccisi, che si raggruma sui volti e sulle mani, sui pugnali e sulle spade. [...] Ma questo è un sangue che non vuole andar via né dai volti, né dalle mani, né dai pugnali. Macbeth incomincia e finisce con una carneficina. Il sangue aumenta sempre di più, sommerge tutti, invade la scena". E Kurzel, nel suo film oscuro e magnifico, ci restituisce proprio questo: l'immagine di un mondo "inondato di sangue". La perfetta cornice per "una favola narrata da un idiota, piena di rumore e di furia, che non significa nulla".