Sapete, ci sono alcuni giorni in cui perfino io stessa penso di essere sopravvalutata... ma non oggi!
È la "grande attrice" per antonomasia, e lei stessa non perde occasione per scherzarci sopra. Meryl Streep, che oggi compie 70 anni, apriva con questa battuta il suo discorso di ringraziamento agli Emmy Award del 2004; quando invece, agli Academy Award del 2011, venne chiamata sul palco per ritirare il premio come miglior attrice, le sue prime parole furono: "Quando hanno pronunciato il mio nome, ho avuto questa sensazione di poter udire mezza America che esclamava 'Oh, no! Ma dai, perché... lei... ancora?'". Perché lei? Perché Meryl? Al termine dello stesso discorso, l'attrice rendeva omaggio a tutti i propri colleghi per una carriera "inspiegabilmente meravigliosa"; eppure dev'esserci una spiegazione sul perché quella di Meryl Streep sia stata e continui ad essere una carriera tanto meravigliosa, davvero senza eguali nel panorama cinematografico degli ultimi quattro decenni.
Perché lei, insomma? Perché proprio Mary Louise Streep, per tutti Meryl, è generalmente considerata la miglior attrice della propria generazione? E volendo mettere da parte un concetto soggettivo quale appunto "migliore", perché Meryl Streep rimane comunque l'attrice indubbiamente più popolare della nostra epoca? Quella che, dal suo debutto sul grande schermo (nel 1977, a ventotto anni, in Julia), ha collezionato il maggior numero di riconoscimenti - tre Oscar su un totale da record di ventuno nomination, nove Golden Globe, due BAFTA, tre Emmy e i premi ai Festival di Cannes e Berlino - e si è stampata con maggior forza nel nostro immaginario collettivo? Qual è, insomma, il segreto di una carriera così "inspiegabilmente meravigliosa"?
No, Meryl Streep non è sopravvalutata, sono tutti gli altri ad esserlo
Un talento fuori dal comune
La prima risposta è anche la più banale, ma non potrebbe essere altrimenti: il talento. Se le doti nella recitazione sono invariabilmente la base di una carriera di successo, in molti casi ci sono ulteriori elementi che, insieme al talento, contribuiscono a rendere un attore o un'attrice un'autentica star: la bellezza; il fascino; il carisma; la simpatia; un singolo, fortunatissimo ruolo destinato a consacrare la fama del proprio interprete. Spesso si tratta di un amalgama fra tutti questi ingredienti, o almeno alcuni di essi: di numerosi divi, più o meno giustamente, si tende a sottolineare in primo luogo il sex appeal, o magari l'identificazione con un personaggio a cui sono particolarmente legati. Si pensi, restando all'interno della generazione di Meryl, alla sensualità magnetica di una grande attrice come Kathleen Turner, o allo charme con cui Harrison Ford ha dato vita ad icone quali Han Solo e Indiana Jones.
Per Meryl Streep, invece, il tratto distintivo della sua parabola professionale è stato sempre, inesorabilmente, un talento senza pari. Un talento che, fin dai suoi primissimi film, le ha consentito di reggere il confronto con attori già affermati: Robert De Niro ne Il cacciatore (1978, suo primo ruolo di rilievo e sua prima candidatura all'Oscar) e Dustin Hoffman in Kramer contro Kramer, che le vale la statuetta come miglior attrice supporter 1979. Basti rivedere la scena della sua deposizione in tribunale nella pellicola di Robert Benton: a Meryl, non ancora trentenne, bastano una manciata di minuti per delineare il complesso universo emotivo di un personaggio che, sulla carta, rischiava di rimanere una figura algida e distaccata.
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La scelta dei ruoli
Il talento da solo, per quanto sconfinato, non è sufficiente a garantire una carriera florida e longeva, se non è unito a un'altra capacità: la scelta dei ruoli adatti. E dopo Kramer contro Kramer, nessuno ha inanellato un terzetto di ruoli paragonabili a quelli interpretati da Meryl Streep fra il 1981 e il 1983. Nel 1981, a quattro anni dal suo debutto, Meryl ottiene la sua prima parte da protagonista ne La donna del tenente francese di Karel Reisz, dal romanzo di John Fowles, in un doppio ruolo che la vede passare da una fallen woman dell'età vittoriana a un'attrice dei giorni nostri. L'anno seguente vince il suo secondo Oscar impersonando Sophie Zawistowski, immigrata polacca negli Stati Uniti, sopravvissuta ai campi di concentramento, ne La scelta di Sophie di Alan J. Pakula, dal libro di William Styron. Nel 1983, invece, è la coraggiosa operaia di una fabbrica nucleare in Silkwood, dramma di denuncia civile diretto da Mike Nichols.
Chi si chiede perché Meryl Streep sia l'attrice più acclamata dei nostri tempi, o chi ha poca familiarità con la sua filmografia del passato, corra a recuperare questi tre titoli magnifici: si tratta di tre ruoli (anzi, quattro) diversissimi fra loro, in cui Meryl si immerge con abnegazione totale risultando non solo perfettamente credibile, ma straordinariamente coinvolgente. Dalla sommessa sofferenza della Sarah Woodruff de La donna del tenente francese ai dilemmi sentimentali dell'attrice Anna; dall'animo martoriato e disperatamente bisognoso d'amore di Sophie (in assoluto fra le più grandi prove di recitazione che siano mai state offerte sullo schermo) alla miscela di rabbia, ironia, paura e determinazione di Karen Silkwood.
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Versatilità e trasformismo
Nel 1985, con un'altra prova da standing ovation, Meryl Streep segna un ennesimo trionfo con un film diventato, allora, il suo maggiore successo: il premiatissimo La mia Africa di Sydney Pollack, in cui presta il volto alla scrittrice danese Karen Blixen. È l'apice della prima metà della sua carriera, quella da consumata interprete drammatica, in grado di variare lingue e accenti con estrema disinvoltura (è il periodo in cui le arrivano pure le prime accuse di manierismo). Ma dalla fine degli anni Ottanta, Meryl deciderà di uscire dalla propria comfort zone e di iniziare a cimentarsi con il genere della commedia: dal guilty pleasure She-Devil - Lei, il diavolo alla celebre black comedy La morte ti fa bella, in cui insieme a Goldie Hawn dà corpo e voce all'ossessione (tutta hollywoodiana) per l'eterna giovinezza.
Gli anni Novanta, in effetti, sono il periodo in cui la Streep dà conferma della propria versatilità. E se l'esito più alto rimane in campo drammatico, con la sua commovente performance ne I ponti di Madison County di Clint Eastwood, nel corso del decennio la vedremo riprodurre la figura di Carrie Fisher nel dramedy biografico Cartoline dall'inferno e dedicarsi a generi quali la commedia romantica (Prossima fermata: Paradiso) e il thriller (Il fiume della paura). Nel 2003, invece, è addirittura un quadruplice ruolo quello in cui si cimenta nella miniserie televisiva Angels in America di Mike Nichols, dal capolavoro teatrale di Tony Kushner, inclusa l'apparizione nei panni di un anziano rabbino. E giusto a proposito di trasformismo, nel 2011 il suo mimetico ritratto del Primo Ministro britannico Margaret Thatcher nel biopic The Iron Lady le vale una nuova pioggia di lodi e il suo terzo, attesissimo Oscar.
Il Diavolo veste Prada, Mamma mia! e la Streep Renaissance
A differenza di innumerevoli altri suoi colleghi, incluse leggende della Golden Age quali Katharine Hepburn e Bette Davis, Meryl Streep non ha mai attraversato fasi 'declinanti' a livello professionale. Eppure, dalla metà degli anni Duemila, la sua popolarità già vastissima ha conosciuto un improvviso, spaventoso incremento, più unico che raro per attrici avviate verso la soglia dei sessant'anni. La "pietra angolare" di questa Streep Renaissance è individuabile in uno dei personaggi-simbolo di Meryl, molto lontano da tutti quelli da lei interpretati prima di allora: la cinica e spregiudicata Miranda Priestly della commedia Il diavolo veste Prada. Nel 2006, Il diavolo veste Prada si rivela un successo gigantesco; e Meryl, che riesce a far trapelare l'umanità dietro la maschera della spietata donna d'affari, disegna la figura forse più iconica di tutto il suo repertorio.
Ma non finisce qui: fra intense prove drammatiche in film quali Il dubbio e altre 'trasformazioni' come quella in Julie & Julia, nel 2008 Meryl Streep sfonda il tetto dei seicento milioni di dollari con Mamma mia!, fenomeno planetario in cui la First Lady del cinema americano canta e balla sui brani più famosi degli Abba e si conquista nuove legioni di fan. Le doti canore, come se non bastassero quelle d'attrice, sono state sfoggiate da Meryl con sempre maggior frequenza negli ultimi anni: da Radio America di Robert Altman, in cui si esibiva in coppia con Lily Tomlin (a tal proposito, non perdetevi le due attrici mentre presentano l'Oscar alla carriera a Robert Altman), al musical disneyano Into the Woods, dalla grintosa rockstar di Dove eravamo rimasti alla stonatissima cantante lirica Florence.
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Perché non si può non amare Meryl Streep
Un talento mostruoso. L'intelligenza nella scelta di film e ruoli. La versatilità nel passare da un genere all'altro, evitando così i rischi del typecasting che ha penalizzato tante sue colleghe. Il mimetismo che le ha permesso di risultare credibile nei personaggi più vari e insospettabili. La furbizia nell'unire progetti più sofisticati a prodotti dall'appeal trasversale. E poi quegli aspetti che, in quarant'anni sulla scena, le hanno consentito di 'scolpire' la propria immagine pubblica, di cui non bisogna sottovalutare l'importanza: l'irresistibile ironia e autoironia, tali da rendere ogni suo discorso un piccolo evento, spesso esilarante, fra battute abilmente studiate e improvvisazioni ancora più divertenti (come quando, davanti al microfono, si accorse di aver dimenticato gli occhiali); e quel suo essere - o perlomeno apparire - sempre umile e con i piedi per terra, lei, la donna universalmente definita la più grande attrice vivente.
Tutto questo ha fatto sì che Meryl Streep non fosse soltanto l'indiscussa fuoriclasse, l'epitome del talento, la veterana capace di esibire mille accenti e di mutare sembianze, età e voce senza battere ciglio. Da almeno quattro decenni Meryl fa parte del nostro immaginario: grazie ai suoi film, alcuni dei quali dei classici, ma anche per quel volto sorridente, rassicurante, in una parola 'familiare', che è entrato più e più volte nelle nostre vite di spettatori, e del quale non vorremmo mai fare a meno. E per una risolutezza, solida ma mai arrogante, che all'occorrenza non ha esitato a sfoderare a testa alta, come quando dal palco dei Golden Globe si è scagliata contro la prepotenza di Donald Trump nel deridere un giornalista invalido; e che ha saputo trasmettere di volta in volta a molte delle sue splendide protagoniste, donne impegnate a fronteggiare ostacoli e difficoltà e a ricercare il proprio posto nel mondo. Secondo quel principio che lei stessa ci ha ricordato, nel suo discorso più emozionante: "Take your broken heart, make it into art".