Ancora oggi mi chiedo come si faccia a essere un professionista o perfino un artista a Hollywood. Come si sopravvive al costante tiro alla fune tra l'espressione personale e gli imperativi commerciali? Quale prezzo si paga per lavorare a Hollywood?
In un'industria che ha sempre richiesto enormi compromessi, quando non addirittura autentici sacrifici, una carriera come quella di Martin Scorsese non rappresenta soltanto un unicum, ma quasi una sorta di miracolo. E non si tratta solo della sensazionale longevità di un percorso che, dal debutto nel 1967 con Chi sta bussando alla mia porta?, ha attraversato oltre mezzo secolo, ma ancor più della solidità e della coerenza di una produzione che ha saputo mantenersi rigorosamente fedele a una precisa idea di cinema. Un'idea che Scorsese, nato nel Queens il 17 novembre 1942 e cresciuto nella comunità italoamericana di Little Italy, ha portato avanti dall'interno del sistema hollywoodiano e dei suoi meccanismi; senza restarne stritolato, ma continuando allo stesso tempo a difendere il principio del film concepito come forma d'arte, più che come un oggetto di consumo.
Martin Scorsese e la limpidità dei classici
Eppure, il cinema di Martin Scorsese non prescinde mai del tutto dalle dinamiche commerciali, al di là dei diversi esiti riscontrati dalle sue opere: quelle dotate di un appeal trasversale e in grado pertanto di infiammare il box-office, da The Departed a The Wolf of Wall Street; e i progetti più lontani dall'attenzione del grande pubblico, come Kundun e Silence, non a caso fra i più strettamente legati alla dimensione spirituale. Senza dimenticare la ricezione infuocata de L'ultima tentazione di Cristo, in virtù della sua prospettiva 'laica' e dolorosamente umana, né quei titoli che, dopo una tiepida considerazione iniziale, si sono presi una meritata rivincita fino a rivendicare lo statuto di cult: da New York, New York, che dietro una natura solo in apparenza anacronistica (era il 1977, ben dopo il tramonto del genere musicale) sfoderava uno spirito modernissimo, a Fuori orario, stralunata follia notturna dalle cadenze ironiche e surreali.
New York, New York: 45 anni di un cult che ancora ci fa sognare
Insomma, sebbene la filmografia di Martin Scorsese alterni imponenti campioni d'incassi a pellicole più ardite e sofisticate, difficilmente uno dei suoi lavori potrebbe essere definito 'ostico' o suggerito esclusivamente a una nicchia di cultori. Al contrario, Scorsese è un cineasta il cui linguaggio è sempre stato ammantato della limpidità dei classici, e dunque capace di parlare al più ampio ventaglio possibile di spettatori: che si trattasse dei trenta o quaranta milioni di biglietti venduti da ciascun capitolo del suo sodalizio con Leonardo DiCaprio; delle cifre decisamente più modeste registrate da Re per una notte e, appena sei anni fa, dalla meditazione sulla fede del magnifico Silence; o della platea assai più vasta, fluida ed eterogenea fornita da Netflix alla sua più recente fatica, The Irishman, struggente capolavoro che sembra segnare il canto del cigno del filone dei gangster movie.
Riscrivendo le regole, da Taxi Driver a The Irishman
Nel panorama contemporaneo, del resto, il pubblico in sala avrebbe sostenuto a sufficienza un fluviale dramma proustiano sulla senilità di una generazione di gangster? È l'interrogativo a cui The Irishman, con il suo impressionante sforzo produttivo (la leggenda racconta di un budget oltre i duecento milioni di dollari), ci ha messo di fronte prima ancora che l'intero apparato del cinema fosse colpito e rimodellato dagli effetti della pandemia. E già allora Martin Scorsese, il maggiore regista vivente, l'infaticabile portavoce della magia della sala come strumento di una poderosa esperienza collettiva (basti pensare al suo Hugo Cabret, comprensivo dell'omaggio a Georges Méliès), ricorreva a un compromesso pur di non cedere a un altro: rinunciare al grande schermo (con poche, felici eccezioni) per poter realizzare, in piena libertà e con ampia disponibilità di mezzi, il suo film più lungo e crepuscolare, nonché uno fra i più belli in assoluto.
The Irishman, o del perché Martin Scorsese è ancora il più bravo di tutti
Il linguaggio di Scorsese, si diceva, è cristallino, universale (al di là dei soggetti trattati), ma mai banale né scontato. La sua efficacia deriva piuttosto da un'estrema consapevolezza del mezzo; dalla coscienza delle sue potenzialità e delle sue regole, una coscienza mutuata dalla cinefilia onnivora per i maestri del passato e dalla sincera curiosità verso i colleghi del presente; e dal coraggio, talvolta, di modificare quelle stesse regole: non per narcisismo, ma per piegare la grammatica filmica alla 'verità' del racconto. Ecco dunque la ragione (non l'unica, ma forse una delle principali) dell'impatto di molti suoi film sul nostro immaginario collettivo, nonché dell'influenza esercitata su decine di opere a venire: a cominciare da Taxi Driver, titolo-spartiacque nell'ambito della New Hollywood e della sua evoluzione verso le ossessioni e gli incubi dell'epoca successiva, per proseguire con la peculiare rielaborazione dei canoni del biopic con Toro Scatenato e del gangster movie con Quei bravi ragazzi.
L'America ieri e oggi in un cinema che parla a tutti noi
In questi e altri film, da Mean Streets a Casinò, attori quali Robert De Niro, Harvey Keitel e Ray Liotta hanno dato corpo e volto ad antieroi i cui conflitti morali sono destinati ad esiti esplosivi, e la cui brama di vita risulta indistinguibile da un impulso parossistico all'autodistruzione. Personaggi alla cui categoria sono ascrivibili anche i ruoli affidati da Scorsese a Leonardo DiCaprio, dal magnate Howard Hughes di The Aviator al broker Jordan Belfort di The Wolf of Wall Street: artefici, ciascuno a proprio modo, dell'iconografia dell'America del ventesimo secolo (la Golden Age hollywoodiana e il capitalismo rampante dell'età reaganiana), entrambi schiacciati dal peso della loro stessa ambizione. Ma in fondo dell'America, delle sue contraddizioni, dei suoi splendori e delle sue miserie ci parla quasi tutto il cinema di Scorsese, seppure in modi differenti, riadattati di volta in volta in base alle necessità di ogni singola storia.
Da Taxi Driver a Silence: gli antieroi di Martin Scorsese tra fede, redenzione e martirio
Dall'ottimismo insito nella vita di provincia, dipinta con i toni caldi di Alice non abita più qui, si viene immersi nelle tenebre dell'alienazione di Taxi Driver; alla brutalità frenetica e allucinata di Quei bravi ragazzi e Casinò fanno da contraltare, ne L'età dell'innocenza, le gelide convenzioni sociali contro cui si sprigiona la fiamma della passione fra Daniel Day-Lewis e Michelle Pfeiffer; il mito della violenza fondativa rievocato in Gangs of New York si riflette nel sanguinoso romanzo criminale di The Departed, trasferito dalla Hong Kong di Infernal Affairs nella cornice della Boston odierna. Pochi registi, in sostanza, possono vantare la versatilità di Martin Scorsese, la sua disinvoltura nel navigare fra i generi senza abdicare alla propria poetica; ancor meno sono coloro che hanno saputo offrirci una tale profondità di sguardo mediante punti di vista spesso inediti e sorprendenti. Lasciandoci intuire che il cinema, nei casi più fortunati, può rivelarci nuovi aspetti di noi stessi e perfino diventare uno straordinario atto d'amore.