"Di che cosa parliamo quando parliamo di cinema?", diceva un famoso saggio del compianto Ezio Alberione. Che cosa sia il cinema per noi lo scriviamo su queste pagine elettroniche ogni giorno. Ma che cos'è, cos'è stato, cosa rappresenta il cinema per chi ogni giorno lo fa? Ce lo siamo chiesti spesso. E abbiamo deciso di parlare con gli artisti, registi, attori, sceneggiatori, per capire da dove sia nato il loro amore per il cinema, come quella passione sia diventata un lavoro, e cosa voglia dire per loro il cinema oggi. È nato così MovieTalk. E abbiamo deciso di iniziare queste chiacchierate sul cinema con Marco Ponti, classe 1967, un regista i cui film (dall'esordio fulminante del 2000, Santa Maradona, al recente Una vita spericolata) trasudano una passione per la Settima Arte da ogni fotogramma. Poi, al di là del fatto che, come hai sempre immaginato, ti ritrovi a parlare con uno che ha le tue stesse passioni, parlare con Marco Ponti è come parlare con un amico. E ti ritrovi a discutere di film notissimi, ma anche di chicche molto particolari.
Leggi anche: Marco Ponti: "Ciclicamente il cinema italiano deve produrre prototipi"
Un amore nato con Steven Spielberg.
Se uno ama il cinema, lo ama fin da bambino. Marco Ponti è uno di quelli, come molti di noi, che hanno vissuto un'altra epoca del cinema. "Innanzitutto il cinema per me era una folgorazione bambinesca, un luogo che frequentavo da bambino" ci racconta. "Vicino a casa mia c'era un cinema, a pochi metri, ed era normale andarci, e anche andarci senza i genitori. In realtà c'era un cinema di seconda visione e uno di terza visione: in provincia i cinema di terza visione non erano nemmeno legati alla programmazione del momento. Ovviamente si tentava di andare a quello di seconda visione perché c'erano i film di cui avevi sentito parlare di più". E da lì è iniziato l'amore. "Il colpo di fulmine assoluto sono stati i film di Steven Spielberg, che mi hanno accompagnato per tutta la vita: continuo a vederli ancora oggi, appena escono" ci confida Ponti. "La prima folgorazione è stata Incontri ravvicinati del terzo tipo, mentre in televisione vedevo Duel e Sugarland Express. Di colpo questa tripletta, alla quale poi si è aggiunto E.T. L'Extraterrestre qualche anno dopo, ha indicato per me la strada amorosa. Mi colpiva quel tipo di incantamento, quel tipo di meraviglia, tipica di un film come Incontri ravvicinati del terzo tipo: pensiamo alle inquadrature marcate sulle persone che vedono lo straordinario, che sono più importanti delle inquadrature su quello che loro vedono, pensiamo alla faccia incantata di Dreyfuss. Lì ho scoperto un certo tipo di meraviglia che non c'era altrove". Ma non si tratta solo dei film che vedevamo, ma anche di come li vedevamo. "Erano gli anni in cui vivevamo un'esperienza che ha raccontato con grande lucidità Italo Calvino in 'Autobiografia di uno spettatore', un'epoca in cui si permetteva di andare al cinema senza verificare l'orario di inizio del film. Si vedeva spesso il secondo tempo, non capendoci nulla, e poi il primo: a quel punto capivi qualcosa, e poi restavi per il secondo". E pensare che oggi ci si arrabbia per uno spoiler su una serie tv postato sui social... "La contemporaneità della visione, con l'ingresso legato all'orario, piattaforme come Netflix, in cui tu vedi quando vuoi il tuo programma, hanno tolto questo tipo di lavoro narratologico" riflette Ponti. "Un bambino prima era obbligato a fare dei ragionamenti profondi sul meccanismo narrativo. È già una formazione molto forte".
Leggi anche: Steven Spielberg e la fantascienza: una storia d'amore in 6 film
Una domenica Paolo Villaggio, una domenica Bernardo Bertolucci
Tanti di noi possono ricordare quegli anni, quella passione onnivora che ci faceva consumare cinema, cinema, cinema. Ma cinema di tutti i tipi. "Nei cinema di seconda o terza visione ricordo con precisione di aver visto una domenica Il Signor Robinson con Paolo Villaggio e quella dopo La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci; vedevo Sergio Leone ma anche i film di Bud Spencer e Terence Hill" ricorda Marco Ponti. "Non avevi la sensazione del cinema alto e del cinema basso, ma che il cinema fosse una cosa enorme che conteneva tante declinazioni possibili. Ricordo anche una serie di commedie israeliane, Lemon Popsickle. Vedevi Olmi e vedevi Bud Spencer. E poi quando vedi Spencer in un film di Olmi, Cantando dietro i paraventi, capisci che è un cerchio che si chiude. A questo si aggiunge la visione di Guerre stellari, del 1977, per cui sono impazzito, I predatori dell'arca perduta, nel 1981, e Blade Runner, nel 1982, quel cinema americano spettacolare. Tutto questo è stato il mio imprinting". Al quale va associata un'altra esperienza fondamentale. "I film che vedevamo di notte presentati da Enrico Ghezzi o Vieri Razzini" aggiunge. "Film come Freaks, o il primo film di Lucas, L'uomo che fuggì dal futuro (THX 1138), film che vedevi grazie a queste figure fondamentali".
Leggi anche: Blade Runner: 10 intuizioni di un capolavoro non replicabile
Apocalypse Now e 2001: Odissea nello spazio visti al mare
"Gli altri colpi di fulmine che ricordo sono stati, da ragazzino, un'estate al mare: non so cosa avesse preso agli organizzatori, ma non programmavano film normali, e invece avevano fatto una serie di film importanti: così ho visto al cinema Il Dr. Stranamore, Apocalypse Now e 2001: Odissea nello spazio" ci racconta il regista di Santa Maradona. "Vederli su grande schermo, da teenager, è stata un'esperienza che mi ha lasciato incredulo". "Così come, da studente, a Torino, avere vicino all'università il Museo del Cinema", continua. "Spesso tagliavamo le lezioni e andavamo al cinema, anche perché avevamo la sensazione di continuare a studiare. Ricordo la scoperta de Il ladro delle 11 (Pierrot le fou) di Godard, con Jean-Paul Belmondo e Anna Karina. Quando hai visto un film come quello, su grande schermo, capisci che questo è il mestiere più bello del mondo e vedere i film in questo modo è l'esperienza più bella del mondo. E in qualche modo mi ha confermato un amore infantile e ha determinato anche un sogno: da sempre il cinema era qualcosa che avrei desiderato fare, ma capire quanto dovesse rimanere un sogno e quanto diventare realtà non era facile".
Leggi anche: 2001: Odissea nello spazio. I segreti del "più grande film di fantascienza"
La Torino di Ponti e dei Subsonica
Erano anni in cui non c'erano molte scuole di cinema, e l'università, e le scuole in genere, non erano proprio improntate a un insegnamento pratico. Abbiamo chiesto a Marco Ponti se i suoi studi universitari, in lettere e filosofia, fossero stati già scelti con in mente questo lavoro, o se il cinema è stato qualcosa che è nato strada facendo. "C'era già un seme di desiderio di fare quel mestiere lì" ci confida. "Però all'università noi non studiavamo tanto il cinema, non facevamo corsi sulla sceneggiatura, ma studiavamo i film, e ti beccavi quello che c'era quell'anno. Nel mio anno c'era il monografico sull'Espressionismo tedesco: un po' ti studiavi le inquadrature, lo spazio scenico, ed era un po' come fare un corso di cinema". E poi il cinema è diventato un lavoro. Non subito, però. "Con la laurea io e i miei amici eravamo convinti che avremo trovato lavoro, il nostro posto nel mondo, e questo non è avvenuto nella maniera più assoluta" ricorda Ponti. "Non solo non venivamo presi in considerazione, ma ci dicevano: scusa ma veramente credi di trovar lavoro oggi come oggi?" Se lo ricordate, o se vi andasse di rivederlo, è tutto dentro Santa Maradona. "A quel punto ci siamo detti: dato che a nessuno può fregare nulla di noi, proviamo a fare quello che ci piace: male che vada si muore combattendo. Tra i miei amici c'erano Stefano Sardo, sceneggiatore, e Luca Bianchini, che all'epoca si mette a scrivere il suo primo romanzo; io mi metto a scrivere un film, il mio amico Pierpaolo con Samuel Romano mette su i Subsonica. Di colpo, tutti quanti cominciamo a fare qualcosa. Senza una reale prospettiva, ma con l'idea: facciamolo. Anche questo rimbalzarsi di ambizioni fa sì che ognuno trova energia dagli alti, l'humus è molto buono. Nel giro di qualche anno riusciamo a concretizzare qualcosa, per primi i Subsonica, che escono con il primo disco nel 1997, e poi tutti noi. Abbiamo detto: diamoci da fare, mal che vada avremo un romanzo o un disco non pubblicati, un film non fatto". "Nel momento in cui comincio a fare cinema ci sono passioni fortissime, come Federico Fellini e Jacques Tati: studiarlo e vederlo tutto da adulto è una cosa unica, gli vuoi bene come a un amico. E poi c'è Jean Vigo" aggiunge.
Leggi anche: Una vita spericolata: Marco Ponti è tornato
Tra Quentin Tarantino, i fratelli Coen, David Lynch...
E così Marco Ponti scrive il suo primo film, Santa Maradona, alla fine di un decennio che in qualche modo ha cambiato il cinema. "Sono molto legato agli anni Novanta", ricorda. "C'erano Tarantino, i fratelli Coen de Il grande Lebowski, il momento d'oro di Lars Von Trier, Tim Burton, che, se pensiamo al primo Pee-Wee era un ufo, e poi ha fatto i Batman, La leggenda di Sleepy Hollow. C'era Kassowitz, di cui mi piacevano Metisse, L'odio, Assassins e I fiumi di porpora. In tv c'era I segreti di Twin Peaks di David Lynch, che poi, al cinema, portava Strade perdute, che lo vedi e ci metti due settimane per riprenderti, e Mulholland Drive, del 2001, che con gli amici abbiamo cinque volte prima di avere un'ipotesi sulla sua interpretazione. Ma intanto ti fa paura, l'uso della musica e del sound design è straordinario: basta entrare in una stanza con Lynch e hai già paura. Mi aveva fatto molta paura anche The Kingdom, di Von Trier. Sono sensazioni belle: se in Spielberg c'è la meraviglia, in Lynch c'è l'angoscia. Sono sensazioni così potenti che ti rendi conto cdi che forza abbia quel linguaggio". "A proposito di televisione, fin da piccolo mi piaceva vedere cose strane" aggiunge. "Per il mio senso dell'umorismo è stato importante vedere Mork & Mindy, Mash, ma guardavo anche Sandokan, Orzowei. E alcune serie inglesi che, se qualcuno dei lettori di Movieplayer dovesse averle viste, potremmo fare un club di nostalgici. Si chiamano Land Of The Lost e The Tyrant King, che erano i precursori de I Goonies. Quando ho visto quei film vivevo già in quel mondo lì, dove i ragazzini si trovano in avventure dei grandi".
Leggi anche: Twin Peaks: David Lynch sfrutta la nostra nostalgia e ci prende in giro. E ben ci sta!
Le serie tv preferite: Peaky Blinders, The Young Pope, Il Miracolo
Davvero interessante pensare ai genitori de I Goonies e Stand by me - Ricordo di un'estate, e pensare che a loro volta sono i genitori di Stranger Things. A proposito, quali sono le serie tv preferite di Marco Ponti? "Oggi vedo molte serie tv, tra le quali l'ultima che ho visto è stata Peaky Blinders, una di quelle cose perfette" ci risponde. "Tra le italiane mi sono piaciute molto The Young Pope e Il Miracolo". È impossibile non parlare di dove si fermi il confine del cinema e dove inizi quello di una serie tv, oggi che un festival come Cannes bandisce film targati Netflix e Venezia porta in programma due serie televisive. "Sono d'accordo sul fatto che un festival possa prendere entrambe le cose, ma è importante chiamare le cose con il loro nome: un film è un film e una serie è una serie" precisa Marco Ponti. "Una serie dei Coen è importante, non in quanto serie, ma in quanto Coen. Se uno dà il giusto nome alle cose, perché no? Recentemente hanno dato al cinema il film tv Principe libero su Fabrizio De André: l'idea di vederlo al cinema è stato bello. Però lo si va a vedere con la consapevolezza che è televisione. Non bisogna fare un minestrone di linguaggi. Sono per mettere tutto ma ogni cosa con la sua definizione". "A casa mi sorprendo a non sapere più dove sono in canali tv" continua. "La mia fruizione casalinga è Netflix e Amazon, per il resto non mi pongo problemi. Al cinema ci vado, e ogni volta che ci vado mi sorprendo per il fatto che, quando sono al cinema, i film mi piacciono tutti. A casa, a volte, certi film mi annoiano, dal cinema esco che sono sempre infervorato. Quando aspetto di vederli in tv, vuol dire che non mi interessano poi tanto..."
Leggi anche: Star Wars Anthology: Abbiamo bisogno di altre storie dalla galassia lontana lontana?
Star Wars, Blade Runner, Alien e quella ricerca della frontiera...
Sentire che si è cresciuti con Star Wars, con Blade Runner, e che questi film generano sequel e il loro mito continua anche oggi, ma in un cinema che non è più quello, ma qualcosa di completamente diverso, fa venire voglia di riflettere anche su queste cose. "Guerre stellari è divertente che ci sia ancora, ma è un'altra cosa, così come il Dylan Dog di Tiziano Sclavi è diverso da quello che trovi oggi in edicola" commenta il regista di Una vita spericolata. "Da una parte abbiamo un'opera artigianale, artistica che va a trovare la sua frontiera, dall'altra un'industria che costruisce su un edificio preesistente. Poi, se ogni anno esce un nuovo Star Wars io lo vado comunque a vedere, mi esalto già al tema principale di John Williams, però non mi metto mai a fare il paragone con la visione originaria di Lucas. È divertente il citazionismo. Se pensiamo al primo Alien, era un film dove succedeva relativamente poco ma visivamente c'era un lavoro straordinario: riflettiamo su H.R. Giger, e sul fatto che una produzione americana affidi a uno scultore/pittore svizzero un intero apparato visivo. Questo vuol dire che stavano sperimentando, che non andavano a botta sicura. Da una parte abbiamo la ricerca della frontiera, dall'altra l'industria. Non è che da una parte c'è il Bene e dell'altra c'è il Male. Ma sono due cose diverse. E, anche qui, chiamiamole con il loro nome".