Marco Bellocchio riceverà domani pomeriggio il Leone d'Oro alla carriera dalle mani di Bernardo Bertolucci. E sarà una delle istantanee più cariche di significato di questa Mostra 2011, ormai prossima alla conclusione. Non può che essere così, visto che sul palco della Sala Grande si incontreranno due dei maggiori protagonisti del nostro cinema, due registi per certi versi vicini, legati da sincero affetto e stima reciproca, ma profondamente diversi nello stile e nella poetica. "Il socialismo, il maoismo, il '68 e il terrorismo sono cose che abbiamo vissuto sulla nostra pelle - ha confessato recentemente Marco Bellocchio al settimanale Left, riferendosi proprio a Bertolucci -. Poi, con la psicoanalisi, lui ha preso una strada e io un'altra".
Se si vuole delineare il percorso artistico di un regista del calibro di Bellocchio bisogna evitare di racchiuderne la figura in una serie di sterili definizioni. La peculiarità della sua storia di cineasta è proprio il continuo movimento, la capacità di trasformarsi, di attingere alla realtà senza tuttavia soccombere ad essa, anzi ricreandola in maniera nuova. Il Leone d'Oro alla carriera che gli verrà consegnato questo vuol rappresentare: il riconoscimento ad un artista che "obbliga" il pubblico ad una vera e profonda attenzione, attraverso il racconto di vicende e personaggi che sembrano agli antipodi: la bella addormentata Eluana Englaro del suo prossimo progetto prodotto da Cattleya e la brutta rinnegata Rebecca del romanzo di Mariapia Veladiano, La vita accanto. Se il cinema di Marco Bellocchio porta verso altre destinazioni da quelle che ci sembrava di aver raggiunto e scoperto, come sottolineato dallo stesso direttore artistico della Mostra, Marco Muller, non possiamo considerare la statuetta come il sigillo 'definitivo' ad un excursus artistico che poco altro ha da dire, ma come il giusto tributo ad un regista che nel tempo è stato capace di rappresentare la complessità dell'essere umano, senza indugiare troppo sulla realtà visibile, ma seguendo quel filo che parte dall'inconscio, una parola dal significato ponderoso che nella sua semplicità brilla nella motivazione dell'assegnazione del premio.
I pugni in tasca
Figlio di un avvocato e di un'insegnante, Marco Bellocchio nasce a Piacenza nel 1939 in una benestante famiglia dell'alta borghesia, un nucleo familiare, colpito da una serie di sventure, che Bellocchio considera una prigione, tanto da credere di trovare nell'istituzione religiosa (il liceo classico San Francesco dei Padri Barnabiti di Lodi) una sorta di ordine rigoroso al caos di una vita senza sbocco alcuno. Il giovane Bellocchio però si allontana subito dalla religione e inizia una militanza politica a Sinistra, collaborando con i Quaderni Piacentini, diretti da fratello maggiore Pier Giorgio. Da sempre attratto dal mondo dell'arte e dello spettacolo in genere (ama la lirica e accarezza l'idea di diventare attore, iscrivendosi all'Accademia dei Filodrammatici di Milano senza finire i corsi), decide di dedicarsi al cinema nel 1959 quando si trasferisce a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia, dove si diploma in regia nel 1962. Tre anni dopo arriva il debutto registico con I pugni in tasca, presentato al Festival di Venezia. La storia di Alessandro (Lou Castel), rampollo di una decadente famiglia piacentina che in preda alla pazzia uccide la madre ed il fratello, fino a morire, al culmine di una crisi epilettica, volutamente abbandonato dalla sorella, colpisce subito critica e pubblico per la sua crudezza e per lo stile personalissimo dell'autore, bisognoso di liberarsi dell'angoscia vissuta durante l'adolescenza in mezzo al suo "deserto" familiare. Nel '67 è ancora una volta Venezia a tributargli gli onori per La Cina è vicina, vincitore del Gran Premio della Giuria. Nel '69 partecipa al film collettivo Amore e Rabbia, dirigendo l'episodio Discutiamo, discutiamo. Assieme a Pier Paolo Pasolini, Jean-Luc Godard e Carlo Lizzani, nel gruppo di registi figura anche Bernardo Bertolucci.
L'incontro con Massimo Fagioli
Nel 1977, esaurito quel furor politico che lo spinge a dirigere opere come Sbatti il mostro in prima pagina, il documentario sui manicomi Nessuno o tutti - Matti da slegare e Nel nome del padre, proiettato domani assieme al documentario sul regista diretto da Pietro Marcello, Marco Bellocchio conosce Massimo Fagioli e inizia a seguire i seminari dell'Analisi Collettiva, intraprendendo un percorso di cura e ricerca durato 30 anni, a volte molto turbolenti, durante i quali imprime una svolta significativa alla sua cinematografia. Già dal 1980, con Salto nel vuoto, premiato a Cannes per le interpretazioni di Michel Piccoli e Anouk Aimée, si intravede in Bellocchio la necessità di un nuovo modo di rappresentare (e concepire) i rapporti familiari e la malattia mentale, due temi fondamentali della sua 'poetica', inseriti ancora in una struttura molto classica, eppure aperta alle 'invasioni' nel sogno; ma è nel 1986 con l'uscita di Diavolo in corpo che questo desiderio, alimentato da una profonda crisi e dalla costrizione a "fare delle immagini nuove", si manifesta con più forza. La trasposizione del romanzo di Raimond Radiguet rappresenta per Bellocchio "la speranza di poter scoprire qualcosa di diverso".
Grazie alla presenza costante sul set dello stesso Fagioli (che supervisiona la sceneggiatura scritta da Bellocchio assieme ad Enrico Palandri, con la collaborazione di Ennio De Concini), il regista realizza un nuovo modo di porsi davanti agli attori, girando in maniera diversa rispetto al passato, "sia dal punto di vista dello sguardo che del sentimento e anche del coraggio di affrontare certe situazioni", ha rivelato lo stesso Bellocchio, riferendosi certamente al rapporto con la protagonista Maruschka Detmers. Quella della donna in profonda crisi depressiva, guarita dal rapporto d'amore con il giovane Andrea, è la figura centrale del film, che grazie al sinuoso corpo dell'attrice racconta in maniera forte la realizzazione di una figura femminile altrimenti destinata alla lentissima discesa agli inferi della vita normale. Con lo psichiatra dell'Analisi Collettiva Bellocchio realizza anche altri film, La visione del Sabba, del 1988, La condanna, Orso d'Argento - Gran Premio della Giuria nel 1991 al Festival di Berlino e Il sogno della farfalla, questi ultimi due sceneggiati entrambi da Massimo Fagioli. E' indubbio come questa "strana" collaborazione (l'aggettivo è stato coniato dallo stesso Bellocchio) abbia portato il regista a cambiare il suo stile e il modo di concepire la professione, arrivando a quella assoluta libertà linguistica che contraddistingue tutta la sua ultima produzione, caratterizzata da una sempre maggiore dilatazione dei tempi del racconto, in un fluire morbido di parole ed immagini di rara potenza visiva.
L'immagine interiore
Il cinema di Marco Bellocchio si apre con la morte violenta di una madre, uccisa da un figlio malato di mente e si chiude con il 'morbido' addio al passato di un vecchio, un uomo in frac che si immerge nelle acque del Trebbia per allontanarsi, morire. Lo strappo de I pugni in tasca sfuma così nella delicata sequenza finale di Sorelle mai, l'ultima opera in ordine di tempo dell'autore romagnolo che, guarda caso, ripropone in diversi momenti alcune sequenze del suo fulminante esordio registico. Non è azzardato scrivere che la carriera artistica di Marco Bellocchio si sia mossa proprio tra questi due estremi: da un lato la ribellione senza scampo di un '68 senza sogni, di cui I pugni in tasca è stato considerato un'anticipazione, dall'altro la forza evocativa delle immagini, capaci di raccontare 'in altro modo' la realtà.
Affascinato dal surrealismo di Luis Bunuel e dal realismo poetico di Michelangelo Antonioni, Marco Bellocchio non si limita a fotografare la realtà, ma cerca "l'immagine interiore" in quella esteriore; il suo è un cinema liberato dal vincolo del realismo, tanto più vero ed emotivamente incandescente, quanto più forte è il legame con un mondo onirico che non è rappresentazione fantastica del mondo, ma pensiero. E quindi immagine. Bellocchio libera Aldo Moro nello splendido finale di Buongiorno, notte; in Vincere dà corpo e voce alla moglie di Benito Mussolini Ida Dalser, cancellata dalla Storia; si serve de La balia di Luigi Pirandello per raccontare di madri e maternità; trova in Sergio Castellitto il volto giusto per incarnare le chiarissime riflessioni sul potere della Chiesa (L'ora di religione - Il sorriso di mia madre) e sul cinema e la fama (Il regista di matrimoni). L'angoscia e la rabbia, un tempo unico propellente in grado di far muovere il suo cinema, si sono quindi trasformate in parole nuove. Pronunciate da un artista che non ha affatto esaurito la sua vitalità.