Non siamo qui a scrivere l'ennesimo articolo su quanto Mad Men sia strepitosa. Non serve, e non aggiunge nulla allo show creato da Matthew Weiner. Non serve, perché è ovvia e oggettiva la potenza narrativa che ruota attorno al profilo di Don Draper e, di rimbalzo, attorno a tutti gli altri personaggi che popolano le sette stagioni di una serie che, però, potrebbe essere sbagliato definire tale.
A costo di sembrare parossistici e intellettualmente arroganti (almeno un pizzico), Mad Men non è solo la miglior serie di sempre (in termini narrativi non ha eguali), ma è anche e soprattutto un manifesto umanista sotto forma di grande romanzo americano. Le serie tv, per aggettivazione contemporanea, lasciamole a chi cerca veloce intrattenimento: Mad Man è faticosa, compassata, a volte bloccata, incredibilmente mastodontica (basti pensare al primo, estenuante episodio, dall'emblematico titolo Fumo negli occhi), irrequieta, stordente.
Eppure, proprio per questo, il suo rifiuto alla facilità la rende unica e insuperabile. Mad Men mette alla prova, sfida, sottomette, annichilisce. C'è l'osservazione sociologica di John Dos Passos, c'è il malessere di Philip Roth, c'è la complessità di Thomas Pynchon, fino ai tratti misantropici di Mark Twain, l'enigmaticità di Bob Dylan o la conflittualità di John Cheever, tra l'altro riflessa proprio sulla duplice figura di Donald Draper, quel direttore creativo impostore della sua stessa vera falsa vita. Altro che Emmy Awards (ben 15), Matthew Weiner avrebbe dovuto vincere il premio Pulitzer per la letteratura.
Mad Men e il salotto illuminista di New York
Letteratura, critica sociale, profilo postmoderno dell'uomo contemporaneo. Un uomo sperduto, avvilito, crepuscolare, dubbioso nella sua ricerca del talento e dell'idea. Profondamente a disagio verso un mondo inquieto e inquietante (c'è la Guerra Fredda, c'è la Corsa allo Spazio, c'è il razzismo, c'è naturalmente l'idea di vendere gli Stati Uniti attraverso la pubblicità). Un uomo a tratti fuori posto, eppure marcatamente sicuro di sé: un abito Brooks Brothers, una sigaretta sempre accesa, un Old Fashioned appena miscelato. Don Draper, certo, ma anche Peggy Olson, Pete Campbell (personaggio complicatissimo e inafferrabile), Joan Holloway, Roger Sterling, Sally e Betty Draper.
Le molte facce dell'America che cambia, che punta al futuro, che guarda oltre le finestre chiuse, affacciate sulla rigidità di Madison Avenue. Salotto illuminista di una New York che non si vede (quasi) mai, pur facendoci sentire costantemente la sua ingombrante ed egocentrica presenza. Egocentrica come gli anni Sessanta, decennio scelto appositamente da Weiner e agganciato non tanto al contesto, bensì ai protagonisti: una decade di cambiamenti, di rivoluzioni, di tensioni, di manipolazioni e di bugie sotto forma di immagine. Le stesse immagini con cui lavora Draper, la stessa immagine menzognera che l'uomo si è costruito, plasmando una verità che troverà la sua assoluta compiutezza solo nella disperata e liberatoria conclusione.
"La nostalgia è potente, ma delicata"
Del resto, se l'etichetta televisiva è stretta, Mad Men diventa un manifesto illuminista sotto forma di linguaggio seriale. Verticalmente, uomini e donne in una caduta libera che tagliano orizzontalmente gli anni Sessanta, come anticipa la stilizzata sigla d'apertura sulle note strumentali di A Beautiful Mine di RJD2. Icona nell'icona, e il credo illuminista che si applica alla visione di Don Draper: l'intelletto al servizio della propria intelligenza, senza essere mai debitore né alla religione né allo Stato. Il "trionfo della ragione", per così dire, ma in continuità con il condizionamento dato dall'esperienza e dell'emotività, di cui la visione di Immanuel Kant si faceva teoria e pratica.
E se di esperienza parliamo, ecco che Matthew Weiner, miscelando l'influenza estetica di Wong Kar-wai e quindi opponendosi alla revisione del passato di M.A.S.H. ed Happy Days, è riuscito ad anticipare lo stesso concetto di nostalgia (che fa rima con esperienza), di cui oggi la narrativa sembra abusarne nei toni e nelle operazioni. In fondo, "la nostalgia è delicata, ma potente" è "il dolore di una vecchia ferita", è "un luogo dove sappiamo di essere amati", dirà Draper, nell'ultima puntata della prima stagione, presentando un piano pubblicitario per il nuovo proiettore Kodak. Quella nostalgia che parte dallo stomaco, barlume di un utopico ritorno al passato che, però, cammina in avanti: come Peggy Olson ("dalla cicatrice psichica preponderante", la definirà Weiner), donna moderna in un mondo di uomini antichi, o come Sally Draper, progressista e liberale nella sua istantanea maturità di ragazzina americana (e fa effetto pensare che i suoi ipotetici sessant'anni sarebbero stati poi festeggiati con l'elezione di Barack Obama).
Orizzonte perduto
Se in qualche modo Mad Men è il pensiero umano espanso e spiegato attraverso l'identità e l'apparenza (guarda caso, le basi della migliore pubblicità), è nei dettagli che diventa revisione illuminista. C'è un momento, probabilmente il momento più alto del racconto, nonché una delle single shot più vigorose della serialità, che esplica al meglio il pitch di questa lunghissima ode: l'episodio 12 dell'ultima stagione. Tutto è cambiato, tutto sta cambiando. Lì, durante un meeting che potrebbe trasformare la vita a Draper, si sta per decidere la campagna marketing della birra Miller. Eppure, Don, lì non ci vorrebbe più stare: si volta verso la finestra, e in una delle rare volte assumiamo il suo stesso punto di vista. Con lui, seguiamo la scia di un aereo, che quasi sembra sfiorare la punta dell'Empire State Building.
Un momento lungo, su cui indugia il regista Phil Abraham: la libertà, la possibilità, la fuga e un aereo da prendere per andare via, senza più tornare. Un aereo, minuscolo e isolato, in bilico su quella New York sempre più simile alla Shangri-La di James Hilton rivista da Frank Capra in quell'Orizzonte perduto del 1937, che darà il titolo all'episodio. Allegoria, istantanea e realizzazione umanistica di un personaggio irripetibile. Donald Draper, conscio di non voler più appartenere alla menzogna, e anzi accettando i suoi demoni come parte integrante di un percorso e di un'evoluzione che rifiuta definitivamente la perfezione. Solo così ritrova l'ispirazione perduta e, dunque, solo così ritroverà la sua essenza. Alla fine di un viaggio che non finisce, ma che anzi riparte da una smorfia finalmente trasformata in un sorriso.