Per la prima volta in quasi un secolo, il Bhutan ha avuto un film nella cinquina dei lungometraggi che concorrono per l'Oscar del miglior titolo internazionale. Un film che il pubblico italiano ha ora modo di vedere in sala, ragion per cui scriviamo questa recensione di Lunana: Il villaggio alla fine del mondo. Un titolo piccolo e delicato, di un regista esordiente che nella cinquina se l'è dovuta vedere con opere di cineasti affermati quali Paolo Sorrentino, Joachim Trier e Ryusuke Hamaguchi, quest'ultimo trionfatore nella categoria. Un titolo la cui stessa presenza in quella rosa di candidati è una grande vittoria, duplice: il film era infatti stato sottoposto all'attenzione dell'Academy già per l'edizione 2021, salvo poi essere squalificato perché non rispettava i criteri legati alla commissione nazionale che deve scegliere il lungometraggio; e così, un anno dopo, c'è stato il secondo tentativo, questa volta andato in porto con l'inatteso ingresso nella cinquina finale, a discapito di papabili dal profilo più prestigioso come quelli provenienti dalla Finlandia, dall'Austria e dall'Iran.
Un altro tipo di viaggio d'istruzione
Lunana: Il villaggio alla fine del mondo racconta le vicende di Ugyen, giovane insegnante che non presta particolare attenzione ai propri studenti poiché fissato con il sogno di andare in Australia e diventare cantante. Per rimetterlo in riga, i superiori lo mandano nella località più remota del paese, e forse del mondo intero: Lunana, un villaggio a quasi 5.000 metri di altitudine e raggiungibile praticamente solo a piedi, facendo un viaggio di ben otto giorni. Una volta arrivato a destinazione, Ugyen si rende conto di essere un pesce fuor d'acqua: nel villaggio non c'è l'elettricità e non esistono passatempi come quelli a cui lui è abituato in città, e gli è richiesto di insegnare senza alcun vero supporto didattico. Inizialmente pronto a mollare tutto, il giovane si ricrede grazie alla gentilezza degli abitanti di Lunana, e piano piano comincia a integrarsi, al netto delle stramberie quotidiane come la presenza di uno yak in classe (da cui il titolo internazionale del film).
Da È stata la mano di Dio a Flee e Drive My Car, i film stranieri candidati all'Oscar 2022
Lezioni di vita
A prima vista, considerando il contesto in cui molte distribuzioni internazionali hanno preso la decisione di far uscire il film, può sembrare di trovarsi al cospetto di un'opera minore, la cui presenza nella prestigiosa cinquina al fianco di Drive My Car, È stata la mano di Dio, Flee e La persona peggiore del mondo sa di anomalia statistica (anche per la - stereotipata ma non troppo - abitudine dei membri votanti americani di non prestare particolare attenzione a cinematografie emergenti o quasi). E se da un lato c'è l'evidente aura da opera prima, con mezzi modesti e una premessa semplice, dall'altro nell'operato di Pawo Choyning Dorji c'è il medesimo, sincero calore umano che attraversa quelle dei colleghi. Sono tutte storie di rapporti interpersonali ed emozioni forti (in molti casi è parte integrante della trama il tema del lutto), con una forte carica empatica che arriva dritto al cuore, e non è da meno la vicenda degli abitanti di Lunana, che con la loro gentilezza regalano piccoli momenti di gioia e humour, resi con grande e impeccabile semplicità (vedi la gag dello yak). La storia giusta, basilare ma molto efficace, con cui far anche conoscere al pubblico internazionale il cinema del Bhutan, nella speranza che non si tratti di un'esperienza unica.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione di Lunana: Il villaggio alla fine del mondo, sottolineando come si tratti di un piccolo e coinvolgente esordio che segna la consacrazione del Bhutan come cinematografia emergente da seguire con interesse.
Perché ci piace
- Lo humour, semplice e al contempo stralunato, è molto efficace.
- I personaggi sono tutti accattivanti.
- L'empatia del regista è evidente per tutta la durata del film.
Cosa non va
- La narrazione fatica un po' a ingranare nella parte iniziale, prima che si arrivi nel villaggio.