Qual è stata la vostra prima volta? Tranquilli, niente domande intime. Intendiamo la vostra prima volta con Luc Besson, il primo film che avete visto del cineasta francese. Dipende dalle generazioni, e, in secondo luogo, dal livello di cinefilia. Per molti il coup de foudre è stato con il folgorante Nikita, per molti altri si sarà trattato di Leon o de Il quinto elemento. Per i più grandi sarà stato Subway. In pochi, immaginiamo, lo avranno scoperto con il suo film d'esordio, Le Dernier Combat, che, a suo tempo (era il 1983) non fu distribuito in Italia, ma arrivò nelle nostre sale solo dopo il successo di Subway. Le Dernier Combat è stato al centro dell'incontro con Luc Besson che si è svolto ieri alla Festa del Cinema di Roma. È il nuovo format degli incontri con il pubblico, che da quest'anno si chiama Absolute Beginners, in onore della canzone di David Bowie, e punta sulla riscoperta delle opere prime dei grandi registi. Format diverso rispetto agli anni scorsi, dunque, ma fino a un certo punto: la chiacchierata, moderata in modo perfetto dal critico Mauro Gervasini, ha toccato, com'è giusto, tutta la carriera di Luc Besson. Rispetto agli anni scorsi, però, ci sono state meno immagini: solo una sequenza (anche se il film, nella sua versione restaurata, è stato proiettato il giorno precedente) in tutto il pomeriggio.
Le Dernier Combat: All'epoca ci dicevano tutti di no
Nel bellissimo, deciso bianco e nero di Le Derniet Combat abbiamo visto un giovane Jean Reno, attore feticcio di Besson, vestito di stracci e di metallo, trovare degli escamotage per entrare in un edificio, senza riuscirci. Come tutti gli esordi, Le Dernier Combat è stato un film pionieristico e coraggioso. "All'epoca ci dicevano tutti di no" ricorda sorridendo Luc Besson. "La cosa interessante è che eravamo tutti tra i diciotto e i vent'anni e, se ci dicevano no, noi lo facevamo lo stesso. Ma non ci diceva di no solo il mondo del cinema, anche i genitori e tutti gli altri. E noi andavamo avanti lo stesso". In che modo, è qualcosa che vale la pena di essere raccontato. "Il primo giorno di lavorazione avevamo 300 euro, cosa che serviva a pagare a malapena i primi due giorni di pasto della troupe" svela il regista. "Non avevamo scelta, dovevamo girare il miglior materiale possibile per dire poi alla troupe che sarebbe rimasta, ma non li avrebbero pagati. Sono rimasti per 11 settimane. Il problema è stato il quarto giorno, trovare il denaro per pagare i pasti. Iniziavamo a mezzogiorno, così dovevamo pagare solo un pasto alla troupe".
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Le Dernier Combat: un film senza parole
Le Dernier Combat è un film dove i personaggi, in un futuro distopico, non riescono a parlare. Le persone sono mute, ma è un film fatto di suoni e di rumori. E allora il lavoro sul suono sul rumore e sulla musica, di Eric Serra è stato fondamentale, come quello nel corto da cui è tratto. "Avevamo grosse ambizioni per il suono" ci racconta Luc Besson. "Il film è stato girato con una macchina da presa che fa un grosso rumore e abbiamo dovuto reinventare tutto. I rumoristi francesi sono molto bravi. E il nostro rumorista ha riscritto molte cose". C'è una scena, in particolare, in cui tutto questo è evidente. "È quella in cui Jean Reno passa con un carretto, e il rumore delle ruote è ridicolo. C'è un contrasto tra le dimensioni dell'attore, una sorta di Schwarzenegger, e il rumorino che fa il carretto. Eric Serra l'ho incontrato quando avevo vent'anni, siamo andati molto d'accordo". E anche qui c'è una storia che va raccontata. "Prima di 'Le Dernier Combat' avevo fatto un corto, con Jean Reno ed Eric Serra, durava 10 minuti" ci svela. "Il rumorista che aveva fatto il corto ci aveva detto: dovreste trasformarlo in un lungometraggio. Ma per il film Eric Serra doveva fare la musica. 'Non ho mai composto musica', mi diceva. Ma io sapevo che ci sarebbe riuscito. In famiglia avevamo rimediato 150 euro per fare il missaggio, e avevo prenotato la sala. Non ci conoscevamo bene. Gli dissi: 'Domani vengo da te e rompo tutto se non ho la musica'. Sono arrivato da lui al mattino, alle sette, per la musica. Anni dopo mi ha confessato di essere entrato nel panico, ero grosso e temeva che lo avrei ammazzato di botte. Aveva lavorato tutta la notte, e aveva concluso solo cinque minuti prima del mio arrivo". "Era arrivato un nuovo sistema, il Dolby, che non voleva usare nessuno", aggiunge il regista. "Siccome non avevo soldi, sono andato da loro, e ho detto: 'se volete una cavia posso farlo io'. Lavoravamo dalle otto di sera alle otto di mattina, e facevamo da cavie. Ogni due ore ci fermavamo: nella sala c'era un tavolo da ping pong, e giocavamo durante le pause". È stato il primo film a usare il Dolby in Francia.
Un taxi volante era il mio modo per fuggire dalla realtà
Nella scena che abbiamo visto, Jean Reno cerca di entrare in una casa. Ci aveva provato prima, e ci avrebbe riprovato dopo, in un tentativo continuo, un po' come Willy il Coyote. È anche da questi particolari che si capisce che c'è qualcosa di ludico nel cinema di Luc Besson. I suoi film di fantascienza, ad esempio, hanno questo elemento. "Già un film in sé è fantascienza" commenta il regista. "Il grosso vantaggio della fantascienza è che è il campo del possibile, si possono reinventare anche le forchette. Il passato è spesso un peso. Amo la leggerezza della fantascienza perché si può ridefinire qualsiasi cosa". Volete un esempio? "Per Il quinto elemento ho scritto pagine e pagine per spiegare come funzionava la società a quell'epoca, come mangiava e tutto il resto. Poi non l'ho utilizzato, ma se mi chiedevate qualcosa di quella società avrei potuto rispondervi", racconta. "Ho cominciato a scrivere 'Il quinto elemento' a 16 anni. Mia madre viveva in campagna, e quando aprivo la finestra vedevo solo mucche. Ho cominciato a pensare che mi sarebbe piaciuto vedere un taxi volante. Era il mio modo per fuggire da quella realtà. Alcol e droghe non mi avrebbero aiutato, ma un taxi volante sì. Tra questo e girare il film sono passati 15 anni, vuol dire che non sono molto dotato, mi ci vogliono 15 anni per fare un film...". Ne Il quinto elemento Besson ha lavorato con fumettisti come Moebius e come Mézières, l'autore di Valerian e la città dei mille pianeti, che poi sarebbe diventato un suo film. "Ho avuto la fortuna di lavorare con loro, non ho mai visto persone così generose", racconta. "Con il tempo mi sono reso conto che i grandi geni sono anche generosi. Moebius aveva 60 anni e lavorava dei disegnatori di 19 anni. Condivideva tutto con loro, e faceva complimenti. Jean Paul Gaultier, che ha lavorato ai costumi, è stato anche lui molto generoso. Questa cosa l'ho scoperta dopo, quando ho lavorato con i più grandi... all'inizio lavoravo con i miei amici".
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Mi rifiuto di entrare nella tecnologia, temo di perdere l'immaginazione
Anche Lucy è un film di fantascienza, anche se non in maniera classica. Ma, rispetto ai tempi de Il quinto elemento, c'è un grande uso del digitale. "Non sono un geek, se devo installare una app sul mio iPad chiedo a mio figlio" si schernisce Besson. "Sono pessimo in questo campo. 'Valerian' e 'Lucy' sono film in cui mi sento a mio agio con tutto il resto: ma per gli effetti speciali non mi immischio, lascio fare agli altri. C'era uno staff di 900 persone in 'Valerian'. Io ero capace di dire loro tutto quello che andava fatto su questo sfondo verde, ma non so toccare un tasto. Mi rifiuto di entrare nella tecnologia: temo di perdere l'immaginazione, la visione". "Su 'Lucy' c'è un momento interessante" ragiona il regista. "Quando arriva alla fine dell''universo passa attraverso un buco nero. Ma dopo il buco nero cosa c'è? Non lo sa nessuno. È stupendo perché puoi girare quello che ti pare. Così abbiamo pensato che tutto potesse essere al contrario, il bianco diventa nero e viceversa. La musica va avanti e poi torna indietro e la macchina da presa va avanti e poi torna indietro nel nostro universo. Spiegare tutto questo ai novecento tecnici non è stato facile. Ma mi hanno seguito".
Se non scrivo sto male, è la mia droga
Luc Besson è un regista, ha diretto capolavori come Nikita e Leon. È uno sceneggiatore, ha scritto serie come Taken, Transporter e Taxi. Ha prodotto 150 film. Cosa gli piace di più: dirigere, produrre o scrivere? "Scrivere" risponde il regista. "Perché si scrive '200 cavalli scendevano dalla collina', e poi 'no, 500 cavalli' e nessuno ti rompe le scatole. E vai dal produttore, e ti dice: 'non potresti farlo con 50?'. Mi alzo alle quattro di mattina e lavoro fino alla prima colazione dei miei figli. Se non scrivo sto male, divento poco empatico, è la mia droga". Ma dei film che ha prodotto ce n'è uno a cui ha lasciato un pezzo di cuore, che avrebbe voluto dirigere invece che affidare ad altri? "No" risponde. "Invece ci sono film per cui sono fiero del regista e non avrei potuto fare meglio di lui. 'Danny The Dog' di Louis Leterrier, con Bob Hoskins e Morgan Freeman. Anche per 'Taken' non avrei potuto fare di meglio. Normalmente i registi vanno molto d'accordo tra di loro, non siamo in concorrenza tra di noi. Ammiro il lavoro di Patrice Leconte, e Xavier Giannoli. Quello che fanno loro non saprei farlo io, e viceversa. Siamo nella stessa cucina ma cuciniamo piatti diversi".
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A Cannes i critici aspettano per 11 mesi per tirarti i pugnali
Mauro Gervasini chiede poi a Besson come rimase ai tempi de Le grand bleu, film non proprio amato dalla critica. "Non capivo" risponde il regista. "Perché si tratta di un film dove non c'è violenza, non c'è sesso, non c'è politica. Ci sono dei delfini e dei ragazzi con i capelli corti che stanno in acqua. A Cannes i critici aspettano per 11 mesi per tirarti i pugnali. I film non vanno presentati nei primi tre giorni. Poi si calmano un po', vanno in spiaggia e si sentono più buoni. Le grand bleu era un film completamente disarmato. Non è che non è piaciuto, ci sono state proprio 250 pagine di m..da gettate sul film".
Il futuro è solo distopico? Ce la faremo
Nel corso della conversazione, Besson ha parlato più volte di fantascienza come qualcosa di positivo, come una via di fuga. Oggi però pare che non si possa vedere il futuro senza definirlo distopico, come fa notare una ragazza tra il pubblico. "Ci sono ancora diversi milioni di anni e ce la caveremo" le risponde ottimista Besson. "Ho ancora fiducia nell'essere umano. Penso che ci siano delle volte in cui siamo troppo viziati, non ci rendiamo conto di quello che ci circonda, il mare gli alberi i bambini. Ci sono generazioni nuove in cui avere fiducia. Sono molto colpito dai miei figli per il modo in cui riflettono e ho fiducia in loro".
Le abitudini fanno male alla creatività
C'è anche chi chiede a Besson se tornerà a fare un cinema più indipendente, dei piccoli film. "Le abitudini fanno male alla creatività" risponde sicuro. "Per essere creativi bisogna cercare di capire. Se si fanno solo piccoli film o solo grandi film non va bene. Durante il Covid eravamo chiusi in casa. Così ho preso una decina di tecnici, ho preso il telefono e ho fatto un corto con il cellulare. Ogni volta che mi chiedevano 'sei autorizzato a girare?' rispondevo 'sto facendo un film per il compleanno di mio cugino'. Le auto della polizia passavano ogni sei minuti, appena passata una tiravamo fuori i droni per girare. Ai giovani posso dire: 'Avete un telefono, un computer, e la piattaforma più importante del mondo che si chiama YouTube. Non avete bisogno di noi vecchi'. Il film si chiama 'June e John' e forse lo vedrete il prossimo anno. Ho finito un film che si chiama 'Dogman' in cui ho cambiato tutta la troupe: ho spiegato loro che ci conoscevamo troppo bene, una troupe nuova poteva portarmi cose nuove". Ma dà un altro consiglio a chi vuole fare il suo lavoro, o qualcosa di simile. "Non scrivete per più di tre ore al giorno" dice rivolto ai ragazzi. "Non serve a nulla. Bisogna uscire, guardare gli alberi, il cielo, caricarsi di emozioni e tornare. Però bisogna faro tutti i giorni". Ma per farcela, spesso contano altre cose. Per Besson sono due. "La situazione in cui uno si trova è importante. I miei genitori sono divorziati, si sono fatti una loro famiglia e mi hanno messo in collegio. Questo mi ha dato qualcosa in più. Ho letto un articolo sul judo. Il 60% di quelli che fanno judo in Francia vivono in città e il 40% nelle periferie, ma le medaglie vengono tutte da questi ultimi perché si trovano in quella condizione. La prima cosa, dunque, è il desiderio di fare. La seconda è cercare di non mentire a se stessi. Se una cosa è venuta bene, ok, se non è buona bisogna rifarla. Io ho una regola quando mostro il film. Se ci sono tre persone che mi dicono la stessa cosa, che non hanno capito bene qualche passaggio del film, io rifaccio il montaggio. Mai raccontarsi storie, ma lavorare, e far partecipare persone che ne sanno".