Love, Death & Robots: ma dove sono finiti i tempi di Zima Blue?

La serie antologica di corti animati creata per Netflix da Tim Miller con l'aiuto di David Fincher ha in passato offerto racconti di grande valore. Nel tempo sembra però aver smarrito la capacità di sfruttare al meglio il potenziale dell'animazione nelle storie brevi.

Una scena di Zima Blue

La prima volta che Love, Death & Robots è apparsa nel catalogo Netflix si portò dietro una ventata d'aria fresca. Una raccolta antologica di cortometraggi animati in vario stile e di vario genere? Da andarci a nozze. Era il 2019, e Tim Miller e David Fincher, che per la serie ha servito da produttore, s'erano inventati questo grande contenitore sulla scorta di un reboot da loro a lungo pensato e poi mai realizzato del film Heavy Metal di Gerald Potterton, del 1981.

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Un corto dell'ultima stagione

Quella prima stagione, a cui poi ne sarebbero seguite altre tre, raccolse consensi abbastanza unanimi e aprì una stagione tutt'ora florida per lo spazio che la piattaforma streaming ha in questi anni dedicato all'animazione. Sarebbe seguito su tutti un capolavoro come Arcane, destinato a rivoluzionare per sempre il linguaggio di riferimento, ma anche ottime opere quali Blue Eye Samurai, Cyberpunk: Edgerunners, Blood of Zeus, più recentemente Tomb Raider - La leggenda di Lara Croft o Devil May Cry.

Un piccolo capolavoro: Zima Blue

Love, Death & Robots ne aveva un po' per tutti i gusti. Gli episodi erano 18 e l'egida era quella di Blur Studios, fondato nel 1995 da Miller assieme David Stinnett e Cat Chapman, che tuttavia si è occupato di animare solo alcuni delle puntate lavorando in sinergia ad altri studi di riferimento internazionali. Il fantastico, il sci-fi, l'horror, la commedia nera sono stati da subito i generi di riferimento, le cornici privilegiate per racconti che assolvessero in particolare ad una doppia funzione: offrire la possibilità di sbizzarrirsi con le storie e concedere il giusto spazio per spremere l'estro visivo.

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Love, Death & Robots: una scena dell'episodio Zima Blue

In scrittura di quasi tutta la stagione c'era Philipp Gelatt, le cui sceneggiature erano adattate da novelle di diversi autori. A spiccare, e spiccò subito, fu in particolare una: Zima Blue. Diretta dal canadese Robert Valley, tratta da un lavoro del gallese Alastair Reynolds e animata dall'inglese Passion Animation Studios, dura 10 minuti e fa alla perfezione quello che dovrebbe fare un cortometraggio. Sarebbe a dire condensare in un arco di tempo brevissimo un nucleo tematico forte, chiaro e compiuto, sfruttando al meglio un immaginario e suggerendo il reticolato emotivo e riflessivo che lo circonda.

Più facile a dirsi che a farsi. Ed è anche difficile a credersi l'agilità riflessiva con cui Zima Blue condensa invece in una manciata di minuti il significato dell'esistenza dell'omonimo artista, che in un futuro non meglio definito è divenuto celebre in tutta la galassia per le sue opere murali sempre più immense, dalla grandezza di corpi celesti e integrate nel cosmo stesso, raffiguranti solo la solita e ripetuta tonalità di blu.

Il senso della vita in un pugno di minuti

È un essere ultracentenario, Zima Blue, circondato da una realtà cibernetica che lo ha a sua volta reso un cyborg, permettendogli di vivere oltre misura ed esplorare i confini remoti dello spazio. Cosa ha fatto in tutto questo tempo? Qual è stato lo scopo della sua prolungata ricerca artistica? C'era davvero uno scopo? Se lo chiede questa piccola perla, il cui stile animato sintetizza in un'estetica minimalista e venata da un'impronta afrofuturista l'inestinguibile mistero che alberga nell'umana aspirazione di tendere al senso dello stare alla vita.

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L'arte astratta di Zima Blue si fa significante esponenziale di questa distanza non colmabile né con il tempo né con lo spazio. Il cui compimento del gesto e la sua ripetizione si pongono allora a paradossale atto tripartito tra costruzione dell'esistere, demolizione della verità ultima e accettazione di un'impossibile mediazione tra questi due poli. Dopo un viaggio simile dunque cosa resta? Un'ultima performance, per abbandonarsi a se stessi.

Prima di tuffarsi in una piscina per tornare alla sua forma originaria, quella di un robot per la pulizia di piastrelle dello stesso blu che ha replicato per il resto della vita, Zima Blue dirà: "Mi immergerò nell'acqua e mentre lo farò annullerò lentamente le mie maggiori facoltà intellettive. Distruggerò me stesso. Lascerò quanto basta per apprezzare il mio ambiente. Da questo otterrò il semplice piacere di un compito bene eseguito: la mia ricerca della verità alla fine si è conclusa. Sto tornando a casa."

Il valore di una storia breve

Love, Death & Robots non ha più raggiunto un picco simile. Già a partire dalla seconda stagione ha subito una flessione, con gli episodi che si sono dimezzati (Miller dichiarò essere stata una richiesta di Netflix, che premeva per rilasciare prima la nuova raccolta) e si iniziavano a fare meno incisivi - il migliore è l'ultimo, Il gigante affogato, tratto da una storia di J. G. Ballard e che tenta uno slancio esistenziale sull'onda di Zima Blue. Con il terzo volume conferma un trend non esaltante, mentre allo stesso tempo si riduce anche la collaborazione di Gillett, che non tornerà invece per la quarta stagione.

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Love, Death & Robots: una scena dell'episodio Tre Robot

In cui l'andamento incerto della serie è rimarcato dal paradigmatico primo episodio, intitolato Can't Stop. In sostanza una reinvenzione animata di un'esibizione dal vivo dell'omonima canzone dei Red Hot Chili Peppers. E... basta. C'è poi qualche episodio più compiuto, tra cui 400 Boys ancora di Passion Animation Studios, ma lo show sembra aver smarrito l'arte di padroneggiare la forma del racconto breve. Spesso confusa - od opportunisticamente ripensata - più nella chiave dello spunto, dell'incipit sfizioso, dell'antipasto. In gergo produttivo: di un pitch efficace.

Morbo che affligge anche un altro lavoro recente di Miller, che si è spostato nel frattempo pure sotto l'egida della competitor Prime Video per la quale ha creato Secret Level. Serie TV che condivide la visione di fondo di Love, Death & Robots: un grande volume che raccoglie cortometraggi animati tratti da altro materiale di partenza. In questo caso non racconti adattati, ma elaborazioni narrative che prendono spunto da videogiochi più o meno noti.

Il risultato finale è però piuttosto scadente. Le puntate paiono sfruttare le singole proprietà intellettuali per il loro nome e poco altro, collocandosi su una retta che va dalla marchetta del brand (ecco: Can't Stop) all'esibizione di una struttura muscolare da demo tecnica - a proposito di raccolte 'tecniche': su Netflix c'è pure quella dello studio indipendente Oats Studios di Neill Blomkamp. Anche Love, Death & Robots si è dimenticata del valore di una storia raccontata bene? Temiamo di sì, e sarebbe il più grande smacco da muovere all'animazione, che non è solo stile, ma soprattutto linguaggio.