Recensione Il soffio dell'anima (2007)

Il messaggio è quello che la normalità è possibile, anche per chi si trova in una situazione disperata, e che la vita va presa a morsi, perché solo così c'è speranza di svincolarsi dall'isolamento e lasciare entrare l'amore.

Lo sbuffo del niente

Guardando un film come Il soffio dell'anima la riflessione non può che farsi scontata: perché destinare alla sala cinematografica un prodotto la cui dimensione naturale è chiaramente quella televisiva? Trovando una giusta collocazione nel palinsesto dell'agonizzante televisione di casa nostra, l'esordio nel lungometraggio di finzione di Victor Rambaldi potrebbe probabilmente trovare un suo pubblico, ma di cinema qui non v'è traccia e perciò fatichiamo a capire il passaggio nelle sale. Pur dando per buoni i nobili intenti, dare visibilità al malato e supportare chi soffre con il miraggio della speranza, non si può certo ignorare la loro traduzione scolastica e ordinaria nel linguaggio filmico che per farsi dignitoso ha bisogno di idee forti, di personaggi significativi, o anche di una sola immagine che meriti di essere ricordata.

Tratto dall'omonimo romanzo autobiografico di Valentina Lippi Bruni, Il soffio dell'anima racconta la storia di un giovane in dialisi così appassionato di arti marziali da averne inventata una che prende il nome del titolo del film. Tormentato da un coetaneo che lo considera uno storpio e non perde mai occasione di umiliarlo, il ragazzo impara a superare le proprie paure attraverso una misteriosa donna cinese che gli fa da guida spirituale. Non manca naturalmente la storia d'amore, con la biondina di turno con spirito da crocerossina. Il messaggio è quello che la normalità è possibile, anche per chi si trova in una situazione disperata, e che la vita va presa a morsi, perché solo così c'è speranza di svincolarsi dall'isolamento e lasciare entrare l'amore. Rambaldi ce lo spiega però in modo asettico e artefatto, sguazzando in una filosofia spicciola che si autodistrugge nel momento stesso dell'enunciazione.
Con un budget evidentemente limitato, la regia deve circoscriversi il più possibile ai corpi degli attori, che in questo caso dovrebbero riempire di senso le inquadrature. Il materiale però è infelice in partenza, combinando le doti limitate del parco attoriale con uno script fatto di dialoghi risibili, che diventano ancor più sconfortanti quando ostentano una filosofia zen da biscotti della fortuna. Quello di Rambaldi è un film che di televisivo ha anche gli attori, prodotti di reality show e intrattenimento caciarone, tra un Flavio Montrucchio che più che un malato dal destino segnato sembra un principe azzurro che scoppia di salute, e un Raffaello Balzo autore di una performance francamente disarmante. La regia moribonda di Rambaldi non aiuta di certo il racconto ad aprirsi, e si perde nel pasticcio dei viaggi astrali di cui delira il protagonista. Vedendo un'opera del genere viene voglia anche a noi di uscire coscientemente dal nostro corpo per catapultarci in una realtà quantomeno sopportabile.