C'è qualcosa di ancestrale nella cinematografia danese; uno sguardo severo che si insidia nello strato profondo dell'epidermide per indagare e testimoniare il (mal)funzionamento della mente umana. Filtrato dagli obiettivi di registi come Carl Theodore Dreyer, Thomas Vinterberg, Lars von Trier, il mondo che si pone davanti a questi sguardi diventa una sala operatoria, uno spazio sterilizzato dove le emozioni vengono solo suggerite, lasciate scorrere nell'anima degli spettatori, senza che queste intacchino le pareti del microuniverso immortalato.
Come sottolineeremo in questa recensione de L'infermiera, anche il mondo seriale adesso diventa un filtro da analizzare al laboratorio. I protagonisti si vestono di drammi reali, presta-corpo di biografie diaboliche, di mani che uccidono e sguardi che colgono in flagrante. Lontana da qualsiasi tipo di retorica, o facile sentimentalismo, la serie in quattro episodi disponibile su Netflix si tramuta in saggio oggettivo sui sospetti e le paure, le morti e le impotenze umane che abitano tra le corsie degli ospedali. Il tutto mentre un'infermiera toglie delle vite, e un'altra combatte per salvarle, o restituire loro la verità.
L'infermiera: la trama
Una mattina di marzo del 2015, la polizia danese riceve una singolare telefonata da un'infermiera dell'ospedale Nykøbing Falster. La donna sospetta che una collega abbia ucciso di proposito alcuni pazienti e teme che sia appena successo di nuovo. In poco tempo si apre un caso di omicidio mai visto prima. Ma perché nessuno ha reagito, e dove sono le prove? Ispirata alla storia vera dell'infermiera danese Christina Aistrup Hansen, la serie in quattro puntate L'infermiera non aspira a dare risposte, ma solo a informare e rievocare i momenti salienti che hanno dato vita a tante, troppe domande e ad altrettante, ingiuste, morti.
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Trasfusioni di angoscia
Sembra non sussistere, nello scorrere delle immagini in movimento de L'infermiera, alcun sintomo di pietismo. Quella della retorica è una malattia tenuta lontana dal corpo seriale diretto da Kasper Barfoed. Ogni inquadratura viene costruita come parte di uno sguardo indagatore, a tratti documentaristico; è come se nello spazio di un'opera di finzione si possa recuperare e restituire la natura reale e biografica di ciò che ha sconvolto le stanze del pronto soccorso di Nykøbing Falster. I primi piani sono valide alternative a una metodologia di ripresa perlopiù ampia, volta a unire i complici e le vittime, le prede e i predatori. Non vuole sorprendere, L'infermiera; vuole incutere un senso di angoscia, disagio, ansia, in una condivisione invisibile tra il mondo posto dentro e fuori lo schermo. Un ponte diretto che annulla la distanza tra lo spettatore e la protagonista Pernille (Fanny Louise Bernth); è lei, difatti, la guida da seguire, la voce a cui credere, il punto focale a cui ancorarsi. Una scelta che il regista sviluppa e concretizza limitando i movimenti della sua macchina da presa, ma lasciando piuttosto che sia la donna a spostarsi tra i vari ambienti, cercare le siringhe mortali, analizzare i documenti, avanzare teorie e sospetti.
Somministrare la minaccia con cura
C'è una certa praticità nel modo di raccontare tipicamente danese (e, per estensione, scandinavo). È come se tutto ciò che rientra nello spazio di ripresa, o faccia capolino sullo schermo, sia giustificato da una precisa motivazione. Nulla è lasciato al caso, sintomo, questo, di un'invidiabile processo di economia del racconto dove ogni cosa che eccede, o è sacrificabile perché inutile ai fini della storia, viene eliminata, annullata, distrutta. Una forma di rispetto non solo verso lo spettatore, ma verso la narrazione stessa, che spinge regista e montatore, produzione e cast tecnico, a ricercare il giusto mezzo mediale con cui divulgarla. Senza la frettolosa compattezza di un epilogo fallace derivante da una riduzione di un lungometraggio, e scevro di un eccessivo e inutile allungamento di un brodo annacquato tipico di molte serie contemporanea da otto/dieci puntate, L'infermiera trova nella suddivisione in quattro episodi la sua perfetta forma di narrazione. Introduzione, prologo, azione ed epilogo: sono questi i quattro, essenziali, capitoli di un viaggio tra le fiamme gelide di un inferno ospedaliero. Senza indugiare su dettagli superflui, o inseguendo sottotrame destinate a perdersi come corpi nella nebbia, ogni puntata trova il proprio equilibrio raccontando la propria parte di un tutto, senza per questo annoiare lo spettatore, ma anzi, spingendolo a volerne di più, ancora, come se fosse in balia di un anti-dolorifico che rende tutto più sostenibile, più sopportabile.
Tutta corsia è paese
È una fotografia fredda, come la terra che l'ha generata, e come il cuore di chi si sveste della propria professione per vestirsi da folle omicida, quella de L'infermiera. Se è vero che tutto il mondo è paese, allora anche le corsie ospedaliere non sono da meno: illuminate da una luce flebile, sono abitate da un silenzio assordante, da sguardi che si abbassano e palpebre che cedono al sonno. Eppure, capita che ad aggirarsi tra quelle corsie vi sia anche la mano della morte; una morte in divisa, di infermieri che da angeli custodi si tramutano in boia insospettabili. Che sia l'ospedale danese de L'Infermiera, o quello americano di The Good Nurse (per non parlare del caso tutto italiano di Sonya Caleffi) si infiltra mefistofelicamente un angelo della morte che da barlume di salvezza si tramuta in mano che soffoca e annulla. Grazie a performance attoriali giocate in sottrazione, L'infermiera si eleva a dipinto seriale di una mostruosità latente, incomprensibile, tutta da scoprire e condannare. Agli occhi di molti la mancanza di un montaggio dinamico, serrato, tipico dei thriller psicologici di stampo hollywoodiano, potrebbe apparire come sintomo di un racconto lento, poco ispirato. In realtà è proprio in questa attenzione ai giusti di tempo di racconto, e agli ottimi raccordi di montaggio, che si riscontra il punto di forza di una serie come L'infermiera. Tentando di emulare lo scorrere del tempo in un contesto reale, dove è l'adrenalina in circolo all'interno del corpo a farsi spinta motrice di eventi e dinamiche, mentre il resto scorre lineare, tra pensieri e parole, sospetti e ordinarietà quotidiana, la serie firmata Netflix porta l'ordinario in un mondo apparentemente straordinario come quello televisivo, per investirlo di ansia e minaccia.
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Un laccio emostatico che blocca il flusso di sangue per individuare il punto preciso da colpire, iniettando la giusta dose di angoscia e interesse: L'infermiera risveglia dal torpore il proprio spettatore, come un defibrillatore di immagini in movimento, per poi lasciarlo in balia delle proprie emozioni nello spazio di una storia vera di morte e recriminazioni, indagini e sospetti, morte e ancora troppe domande senza risposta.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione de L'infermiera sottolineando come la serie in quattro episodi disponibile su Netflix riesca a restituire tutto il senso di angoscia e minaccia che si respirava tra le corsie di un ospedale danese quando morti sospette soffocavano i turni di infermieri e dottori lasciati senza un motivo a cui ancorarsi, o una spiegazione da potersi dare. Quel lascito di morte avrà poi un nome e un cognome, grazie soprattutto ai sospetti e ai dubbi avanzati da un'altra infermiera, la coraggiosa Pernille.
Perché ci piace
- La performance in sottrazione degli attori.
- Il senso di reale angoscia che investe l'intera serie.
- La fotografia desaturata e glaciale.
- Il giusto dosaggio dei tempi di racconto e l'eliminazione di ogni passaggio potenzialmente inutile.
Cosa non va
- La ricerca di un'oggettività di narrazione che spesso rischia di rendere la serie sterile dal punto di vista emotivo.
- La veloce dissolvenza di quell'alone di mistero chiamato a circondare l'identità del vero omicida.