Quanto dolore c'è nello spazio di un addio? Tanto, a volte troppo. Eppure, per chi ha rivoluzionato la musica come i Beatles, abbandonare per sempre il palcoscenico sotto forma di band, non poteva che essere un addio pronto a danzare sullo scorrere di note e accordi musicali. Come sottolineeremo in questa recensione di Let it be, il docu-film diretto da Michael Lindsay-Hogg e scomparso dai nostri radar per cinquant'anni, torna adesso disponibile su Disney+, in una versione restaurata dalla Park Road Post Production di Peter Jackson.
Un progetto audace e coraggioso, capace di fermare il tempo e trasportare il proprio pubblico indietro, ai momenti che hanno preceduto non solo l'incisione dell'album di addio dei Fab Four, ma anche e soprattutto lo storico concerto tenutosi sul tetto del palazzo di Savile Row 3, sede della Apple Corps. Un ritorno che ripristina nello spettatore sentimenti divergenti, in base ai ricordi personali che ci collegano alla musica dei Beatles, e che per un attimo ci illudono di far parte di quella folla di spettatori con il naso all'insù, pronti ad accaparrarsi uno sprazzo di ricordo, un frammento di performance, un verso da custodire, prima che i Beatles lascino per sempre la scena.
Restaurare il passato
Non c'è nulla di studiato, elaborato, o artisticamente pretenzioso in Let it be. Cinepresa tra le mani, Hogg si muove tra fili e microfoni, imprimendo su nastro pensieri, battute, consigli e confronti prima che gli strumenti suonino e i brani diventino immortali. Prima i volti di Paul, John, Ringo e George, e poi l'oblio. Incapace di lasciare per sempre il documentario The Beatles: Get Back - The Rooftop Concert senza il film di riferimento che ne aveva dato vita, Peter Jackson decide di recuperare Let it be e riportarlo allo stato originale, senza modifiche, ma solo con accurati miglioramenti. Un lavoro certosino di restauro e rimasterizzazione che ha permesso al film-documentario di Hogg di ritornare alla superficie, respirare aria nuova, ricordando ancora una volta quanto il tempo potrà cambiare, mutare, a volte distruggere il mondo presente, mentre opere come quelle dei Beatles rimarranno per sempre.
I me mine, o abbraccio tra ieri e oggi
Con l'uscita di Let it be si conclude pertanto quel ben più ampio progetto di recupero della memoria musicale firmata dai Fab Four, grazie al quale Peter Jackson ha potuto addirittura farsi mago dell'impossibile, regalando al proprio pubblico Now and then, brano inedito dei Beatles reso possibile con un lavoro di arrangiamento da parte di Paul McCartney e Ringo Starr su una vecchia demo registrata da John Lennon al pianoforte nel 1978. L'intelligenza artificiale ha fatto poi il resto, in un allineamento di linee temporali differenti, in cui il passato abbraccia il presente, e il vecchio e l'impossibile diventa il nuovo e realizzabile. Un gioco di magia che ora si reitera con Let it be in un cortocircuito dove la nostalgia balla con i brani e le voci dei Beatles, come se il tempo non fosse mai passato, e tutto profumi ancora di fine anni Sessanta.
Four of Us
Let it be è molto più che l'ultimo album dei Beatles, così come Let it be (il film) è molto più che un semplice documentario che ne segue la genesi. Sembra quasi paradossale come una sala di registrazione si tramuti in una metaforica sala parto dentro cui dare la vita a un qualcosa che sancisce la morte di un gruppo. Un commiato, la fine di un tutto, che non ha paura di mostrarsi, anche nelle vesti di quella mela mangiata, ridotta al torso, appoggiata sul pianoforte suonato da Paul a inizio film. I tempi degli Apple Studios, di quella mela verde luccicante e perfetta sono ormai finiti. Adesso è tempo di carriere individuali, di brani da comporre e cantare singolarmente, senza ricercare uno sguardo complice, o correggere una nota sbagliata, degli altri membri.
Estensione e allo stesso predecessore di The Beatles: Get Back, Let it be si affida a filmati non inclusi nel documentario firmato Peter Jackson, portando gli spettatori negli studi e sul tetto della Apple Corps di Londra nel gennaio 1969. Nessun Tardis, o DeLorean: adesso a farsi macchine del tempo sono inquadrature che si limitano a scrutare i volti dei propri protagonisti, di coglierne il processo di creatività, di eliminare quella patina di divismo che li aveva ricoperti con la forza della Beatlemania, per mostrare la loro natura umana. Elenco di accordi, correzioni e imprecisioni, sprazzi di momenti conviviali e di rapporti familiari (complice la sempre onnipresente Yoko Ono, e la presenza di Heather, figlia di Paul McCartney) tutto rientra con naturalezza nello spazio di ripresa, con assoluta semplicità, facendo di Let it be la registrazione di un ricordo, un video amatoriale immortalante l'ultima riunione di famiglia.
Across the universe, o la musica dei Beatles oltre lo spazio-tempo
Quelle dei Beatles sono canzoni senza tempo, un rincorrersi di parole in musica capace di distaccarsi dal legame del proprio periodo storico per attecchirsi a ogni spazio intimo, geografico, cronologico. Sono brani atemporali, che rivelano la propria età solo dai video che li riproducono, dai nastri rovinati, dai colori persi. Let it be e l'attento lavoro di restauro riaccende quella palette cromatica, rendendo di nuovo vivi e attuali visi ormai perduti, oppure segnati dallo scorrere del tempo. Un processo che ha permesso di eliminare quella patina di vecchio, anacronistico, che poteva intaccare l'eternità classica dell'opera dei Beatles, facendo di questo docu-film un corollario di immagini e sequenze che tentano di spacciarsi per prodotti a noi contemporanei.
Film-concerto ante-litteram, e sequenza di tanti papabili videoclip musicali (non a caso Hogg fu un pioniere dei videoclip, collaborando anche con gli Who, i Rolling Stones e, in tempi successivi, sempre con McCartney nell'era Wings) Let it be si fa racconto a sequenze dove ogni brano si tramuta in strofa di un poema dell'addio. Le pareti colorate di viola, verde, rosso, donano inoltre al momento un che di sospeso, onirico, di un sogno da cui gli spettatori sono adesso chiamati a risvegliarsi. E così, di fronte al futuro di un addio, tanto il pubblico londinese sullo schermo, che quello contemporaneo a casa, si mura ancora una volta nella prigione di teste rivolte verso l'alto, verso un tetto aperto sul mondo prima dell'eterno addio. E allora lasciamo stare - Let it be - e accettiamo che quella lunga strada ventosa - The Long and Winding Road - si apra inesorabile verso un commiato che ancora oggi ci scompiglia i capelli e ci inumidisce gli occhi, prima di fare ritorno - Get Back - da dove proveniamo.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di Let it be sottolineando come il lavoro di critica e giudizio su tale opera si basi soprattutto sul notevole processo di restauro che ha permesso a un film scomparso per cinquant'anni di tornare in auge più vivo che mai. Nella sua semplicità, il docu-film di Hogg trova un punto di forza nella capacità di andare oltre il processo di divinizzazione dei Fab Four, immortalandoli come semplici 4 membri di una band pronti a realizzare la propria opera d'addio. Un commiato compiuto senza quella spinta anrcoide e rivoluzionaria, a tratti caotica, che caratterizzava tanto la loro musica, quanto i film che li vedeva protagonisti, ora ridotta a una semplice messa in sequenza di brani e momenti conviviali.
Perché ci piace
- La semplicità della ripresa che dona all'opera un senso di quotidianità.
- L'aver finalmente rivisto un'opera ormai credutasi perduta.
- L'eccellente lavoro di restauro.
- Il senso di contemporaneità e atemporalità che investe tanto l'opera, quanto la musica che immortala.
Cosa non va
- La mancanza di momenti più intimi e dialogati.
- La presa di coscienza, a fine film, che i Fab Four non ci sono più, se non nello spazio dell'arte.